(ASI) Bruxelles – Sono ovunque, anche se non ce ne accorgiamo. Nelle nostre abitazioni, negli uffici, nelle autovetture, nei dispositivi tecnologici che maneggiamo quotidianamente senza nemmeno farci più caso.
Sono i semiconduttori, chip in inglese. Microscopici componenti essenziali per i più svariati prodotti elettronici. Incarnano un po’ il cervello dei nostri cellulari, computer, televisori, videogiochi, elettrodomestici. Le vetture che guidiamo possono averne all’interno centinaia e centinaia. Secondo uno studio della Commissione europea, nel 2020 ne sono stati fabbricati 130 per ogni persona sulla faccia della terra.
La verità è che senza i semiconduttori la società e l’economia internazionale non sono in grado di progredire. A tal punto che, quando la deflagrazione della pandemia da Covid 19 ha costretto le fabbriche produttrici a fermarsi, il mondo intero ha rischiato una pericolosa stagnazione. Le apparecchiature cruciali per la nostra vita, dai dispositivi medici all’elettronica, hanno iniziato a scarseggiare. I prezzi sono saliti vertiginosamente. Moltissime imprese sono state obbligate a chiudere i battenti per mancanza di rifornimenti. Le case automobilistiche hanno dovuto dilazionare i tempi di consegna dei nuovi veicoli di oltre il 70%.
Soprattutto, oltre ai pressoché illimitati impieghi in ambito civile, questi minuscoli componenti – spesso difficilmente distinguibili a occhio nudo – vantano un’importanza strategica nel settore militare. Perché sono il cuore dell’intelligenza artificiale che anima gli armamenti di ultima generazione, quelli in grado di decidere le sorti di un conflitto. Ci sono i semiconduttori dietro la guerra in Ucraina. Ci sono i semiconduttori dietro ogni guerra moderna.
Così, oggi può dirsi davvero potente solo chi può fare affidamento su una produzione ininterrotta, altamente innovativa ed efficiente di chip. Già, ma di chi stiamo parlando?
Non certo degli Stati Uniti, a scapito di tutte le aspettative. Non certo della Federazione russa, per molti il nemico numero uno dell’Occidente. E nemmeno della Cina. O meglio, non la Cina odierna.
È Taiwan la miniera d’oro dei semiconduttori. È lì che si trovano le più grandi fabbriche al mondo. Lì si cela, in altre parole, la chiave del potere. Quella stessa Taiwan – altamente insofferente nei confronti delle ambizioni territoriali cinesi – che Washington e Pechino si stanno contendendo aspramente, a forza di colpi bassi e dure sanzioni incrociate.
Ma in questa imprevedibile contesa per il predominio globale, che ruolo sta avendo l’Unione europea? Un ruolo piuttosto limitato, almeno al momento. L’Europa, invero, non è del tutto priva di tale tecnologia. Anzi, in molteplici settori legati ai chip – dalla ricerca alla produzione di apparecchiature e tecniche necessarie ai modelli avanzati – essa gode di primati ovunque invidiati. Numerose imprese comunitarie che realizzano chip destinati alle automobili o alle apparecchiature industriali, ad esempio, sono leader a livello mondiale.
Ciononostante, stando ai calcoli della Commissione, l’Unione detiene appena il 10% della quota di mercato globale. Bruxelles risulta “fortemente dipendente” dagli approvvigionamenti esterni. C’è l’urgente bisogno, quindi, di incrementare la quantità e la qualità della produzione interna. Anche perché, tra una provocazione e l’altra, tra un’esercitazione militare e l’altra, l’esistenza della piccola Taiwan rischia di finire stritolata dalla feroce competizione fra Washington e Pechino.
In un discorso pronunciato nel 2021, la presidente Ursula von der Leyen si espresse chiaramente: “Il nostro scopo è creare insieme un ecosistema europeo all’avanguardia. Dobbiamo mettere in comune le nostre capacità di ricerca, progettazione e sperimentazione riconosciute livello mondiale. Dobbiamo coordinare gli investimenti comunitari e nazionali. Si tratta di conseguire la sovranità tecnologica”.
Da allora, la Commissione ha avviato un meticoloso lavoro di mediazione fra i ventisette Stati membri. Ne è scaturito un corposo progetto di legge, presentato un anno fa e approvato ufficialmente dalla Commissione industria ed energia dell’Europarlamento lo scorso 25 gennaio.
L’European Chips Act, questo il suo nome, raccoglie appieno l’invito all’unità d’intenti e alla coesione interna e si ripropone di concretizzare la “sovranità tecnologica” invocata da von der Leyen. Il provvedimento, infatti, mobilita ben 43 miliardi di euro ripartiti fra fondi comunitari e privati al fine di raddoppiare la capacità produttiva e portare l’Unione a sfiorare la quota del 20% all’interno del mercato mondiale dei semiconduttori.
Un obiettivo ambizioso da perseguire attraverso lo scambio di conoscenze nelle fasi di ricerca, progettazione e sperimentazione, la sovvenzione di start-up e piccole e medie imprese impegnate nello sviluppo di chip sempre più piccoli e intelligenti, investimenti comuni nelle tecnologie di ultima generazione e nel settore chiave della microelettronica. Sono previste, inoltre, la semplificazione delle procedure per creare un “quadro più favorevole agli investitori” nonché la sottoscrizione di “partenariati internazionali” finalizzati alla costruzione di nuovi impianti produttivi sul suolo europeo. Ciò significa che, pur non essendo esplicitamente menzionate, presto imprese di Taiwan potrebbero inaugurare nuovi stabilimenti direttamente in Europa, come già sta avvenendo negli Stati Uniti.
Nell’approvare la legge, l’Europarlamento ha aggiunto un articolo in cui si restringe fortemente l’ipotesi di condividere con paesi terzi “l’accesso a informazioni riservate come segreti commerciali e altri dati sensibili protetti”. Le imprese beneficiarie di investimenti comunitari non potranno in alcun modo “trasferire dati sensibili suscettibili di violare le norme e i diritti di proprietà intellettuale dell’Unione”, a meno che esse non abbiano ricevuto il via libera da parte della Commissione europea.
Nonostante la nozione di “paesi terzi” non venga ulteriormente esplicitata, non è possibile non intravedere in questo passaggio un allineamento con la legislazione statunitense. La scorsa estate, infatti, la presidenza Biden ha deliberato di troncare qualsiasi relazione commerciale e scientifica inerente il campo dei semiconduttori con la Cina. Una mossa interpretata al pari di una dichiarazione di guerra, che ha pesantemente irritato Pechino.
In fondo, nel mondo contemporaneo incapace di fare a meno dei preziosissimi chip, il vero conflitto si combatte fra Washington e Pechino. In gioco, c’è il controllo degli equilibri di potenza globali.
Con il Chips Act l’Europa sta tentando di battere un colpo. Ma se i ventisette Stai membri ambiscono a un ruolo più importante, dovranno intensificare ancor più gli investimenti e aumentare il gioco di squadra. L’unica via d’uscita per non soccombere consiste nell’immaginarsi europei in tutto e per tutto, nel settore dei semiconduttori come in qualsiasi altro ambito. Consiste nello smettere di farsi concorrenza e nel pensare con una testa sola.
Marco Sollevanti – Agenzia Stampa Italia