(ASI) Si è conclusa ieri, domenica 19 dicembre, la due-giorni di confronto internazionale nel tradizionale appuntamento annuale della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, che dal 1963 riunisce in Baviera altissimi funzionari diplomatici e militari a livello mondiale per discutere le principali questioni globali.
Inevitabilmente, ad aver egemonizzato il dibattito di quest'anno è stata la guerra russo-ucraina, un dossier affrontato da tutti i convenuti. I leader dei principali Paesi occidentali e i vertici dell'Alleanza Atlantica hanno ribadito con forza la loro condanna della decisione assunta dal Cremlino il 24 febbraio 2022 di invadere il territorio ucraino e la validità della linea dura nei confronti di Mosca, rimarcando di voler continuare senza indugi a fornire massicci aiuti militari a Kiev. Secondo il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, sarebbe ancora questa la miglior risposta per costringere Vladimir Putin alla resa o quanto meno ad una tregua per riportare il confronto nei ranghi della diplomazia.
Eppure, dopo quasi un anno di conflitto, lo scontro sul campo va avanti drammaticamente. I pesanti pacchetti di sanzioni adottati da Bruxelles si sono rivelati fondamentalmente inefficaci, come mostrano i dati relativi allo scorso anno, durante cui il PIL russo si è contratto appena del 2,2%. Praticamente nulla rispetto al 10%, al 15% o addirittura al 30% prefigurato da vari politici e osservatori occidentali fino allo scorso settembre. Non solo: stando alle ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale, già quest'anno Mosca tornerà a crescere, sebbene di poco (+0,3%), per poi consolidare la ripresa nel 2024 (+2,1%), quando le economie del G7, già colpite da una forte ondata inflazionistica, si fermeranno tutte abbondantemente sotto il 2%.
La spiegazione a questo "dilemma" è in realtà molto semplice. Gli anni Ottanta e Novanta sono finiti: rispetto ad allora il pianeta è profondamente cambiato e l'Occidente non ne rappresenta più il centro. Mentre Stati Uniti, Unione Europea ed altri alleati scagliavano, una dietro l'altra, sanzioni contro la Russia e decidevano di inviare armamenti, anche letali, all'esercito ucraino, moltissimi altri governi nel resto del mondo assumevano posizioni di neutralità continuando a commerciare con Mosca. Tra questi, ovviamente, c'è la Cina, una nazione da cui ormai tutti si attendono qualcosa: ed è anche questo segno di tempi cangianti.
A Monaco, non a caso, è stato invitato anche l'ex ministro degli Esteri Wang Yi, oggi Consigliere di Stato e Direttore dell'Ufficio della Commissione Centrale per gli Affari Esteri, che ha parlato ai presenti annunciando la proposta di Pechino per un prossimo piano di pace e sottolineando come la stessa esperienza cinese mostri quanto «il percorso di sviluppo pacifico ha funzionato, e funzionato bene». «Rendere il mondo più sicuro è il costante impegno della Cina», ha proseguito il capo della diplomazia del gigante asiatico, ricordando le parole sul rinnovamento e la modernizzazione nazionale pronunciate da Xi Jinping al Congresso del PCC dello scorso ottobre: «Sul modo in cui completare questa modernizzazione, la più grande nella storia umana, la Cina ha dato una risposta ferma ed inequivocabile: seguire incessantemente il sentiero dello sviluppo pacifico». Non un espediente né un esercizio di retorica diplomatica - secondo il ministro - ma «una scelta strategica caratterizzata da profonde riflessioni sul passato, sul presente e sul futuro».
Wang Yi non ha mancato di ricordare le sofferenze patite dal proprio Paese durante le aggressioni coloniali subite a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Forse un monito alla classe politica occidentale, un riferimento velato e indiretto al perdurante doppio standard di molti governi europei, pronti a condannare quanto oggi accade in Ucraina ma dimentichi degli interventi militari decisi dagli Stati Uniti e/o dalla NATO, anche in tempi relativamente recenti.
Il piano annunciato da Wang a Monaco di Baviera, quasi certamente pronto entro un mese, non dovrebbe discostarsi dalla linea-guida della politica estera cinese, ovvero i Cinque Principi di Coesistenza Pacifica, pur adattandoli alla situazione contingente. Sull'Ucraina, infatti, i portavoce del Ministero degli Esteri cinese hanno sempre specificato la necessità di muoversi su un doppio binario: se da un lato Pechino ribadisce l'importanza del principio di sovranità e integrità territoriale, sancito dalla Carta dell'ONU, dall'altro mette in conto anche le rivendicazioni della Russia in materia di difesa, citando il principio di indivisibilità della sicurezza, stabilito in vari trattati tra Mosca e Occidente, secondo cui nessun Paese dovrebbe avvantaggiare il proprio status militare a discapito di un altro.
Tradotto in parole povere: l'Ucraina non dovrebbe entrare nella NATO. Per la sua posizione geografica, anzitutto, per la vasta fascia costiera che possiede sul Mar Nero e per la forte spaccatura politica, sociale e culturale presente all'interno del suo territorio. Un territorio che - non va mai dimenticato - fu dichiarato indipendente nel 1991 sic et simpliciter, cioè senza alcuna rinegoziazione di quelli che sino ad allora erano stati soltanto confini interni nel contesto dell'URSS.
«Negli ultimi settanta e più anni, la Cina non ha mai cominciato una guerra né occupato un centimetro di territorio straniero», ha rimarcato Wang, sgombrando il campo da ogni possibile equivoco: «[Il nostro] è l'unico Paese che ha incorporato lo sviluppo pacifico nella sua Costituzione ed il solo tra i cinque Stati ufficialmente dotati di arsenale nucleare [NWS] a non prevedere il principio di first-use [primo colpo] atomico».
Pechino, insomma, tiene a precisare la sua posizione, contestando nuovamente la «mentalità da Guerra Fredda» e la divisione del mondo in blocchi militari, dopo mesi di accuse in merito ad un suo presunto ruolo di appoggio alla Russia nella guerra contro l'Ucraina. Ed è proprio questo il punto: non tanto l'Ucraina in sé quanto, più globalmente, l'atteggiamento di Washington e dei suoi alleati verso il colosso asiatico.
Mentre l'Amministrazione Biden, rappresentata a Monaco dalla vicepresidente Kamala Harris, non perde occasione per richiamare la Russia al rispetto del diritto internazionale, in realtà gli Stati Uniti lo violano da molto tempo vendendo regolarmente armamenti a Taiwan, un territorio che, in base alla Risoluzione ONU 2758/1971 e ai tre comunicati congiunti tra Cina e Stati Uniti (1972, 1979, 1982), non costituisce alcuna nazione separata bensì è parte integrante della Repubblica Popolare Cinese.
Ingerenze politiche occidentali sono avvenute anche rispetto a Hong Kong, prima nel 2014 e più recentemente tra il 2019 e il 2020, quando per mesi, ogni fine settimana, migliaia di manifestanti devastarono strade, fermate, semafori, uffici di polizia e persino la sede del Consiglio Legislativo locale, esibendo bandiere a stelle e strisce per chiedere espressamente a Washington di intervenire. Senza contare le intrusioni del Pentagono nel Mar Cinese Meridionale, un bacino indubbiamente teso e ancora caratterizzato da questioni marittime irrisolte, che tuttavia dovrebbero continuare ad essere discusse nel quadro delle piattaforme diplomatiche esistenti tra Cina ed ASEAN, senza intromissioni di attori estranei alla regione.
La missione ideologica di difesa globale delle democrazie che i democratici statunitensi si sono intestati subito dopo la vittoria di Biden, insomma, somiglia molto a quella per la difesa globale della libertà, assunta dai neoconservatori vent'anni fa sotto la guida di George W. Bush. Una concezione quasi messianica del potere politico e militare estremamente pericolosa perché cristallizza ed universalizza valori e principi essenzialmente occidentali, spesso confondendoli con ben più pratici interessi strategici.
Dopo le tante richieste di esercitare una qualche pressione su Putin, Pechino scenderà dunque in campo con una sua proposta di pace, assumendo, per la prima volta in questa guerra, un ruolo davvero proattivo. Eppure, qualunque sarà il contenuto del piano annunciato da Wang, le cose tra Cina e Occidente dovranno cambiare. Ne va del XXI secolo.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia