(ASI) I flussi di investimenti diretti esteri (IDE) in entrata nella Cina continentale, cioè ad esclusione di Hong Kong e Macao, sono cresciuti del 17,3% nei primi sette mesi di quest'anno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, raggiungendo un volume complessivo di 798,33 miliardi di yuan.
A presentare questi ed altri dati è stata una nota diffusa nella giornata di oggi dal Ministero del Commercio cinese, riportata da Xinhua.
Tra i diversi comparti, il settore dei servizi ha visto gli IDE in entrata crescere del 10%, a quota 598,92 miliardi di yuan. In forte ascesa anche quelli nel settore hi-tech, dove i flussi sono aumentati del 32,1%: la manifattura registra un incremento del 33% mentre i servizi si fermano al 31,8%.
Nel periodo preso in esame, i Paesi di origine dei flussi a segnare gli incrementi più significativi sono stati Corea del Sud (+44,5%), Stati Uniti (+36,3%), Giappone (+26,9%) e Germania (+23,5%). A beneficiarne, con un incremento degli IDE pari al 41,2% su base annua, è stata soprattutto la parte occidentale del Paese, in ritardo rispetto al livello di sviluppo raggiunto dalle province centrali (+30%) e da quelle orientali (+15,2%), ma da diversi anni in rapida ascesa, soprattutto grazie al ruolo di centri come Chongqing, Chengdu, Xi'an e Kunming ma anche Yinchuan, Urumqi e Lhasa, rispettivamente capoluoghi delle regioni autonome del Ningxia, dello Xinjiang e del Tibet.
Malgrado l'inflazione globale, i forti dubbi di molti esperti sull'effettiva capacità del colosso asiatico di centrare l'obiettivo del 5,5% fissato dal governo ad inizio anno ed il recente addio a Wall Street di cinque big cinesi (PetroChina, China Life Insurance, China Petroleum Chemical Corp., Sinopec e Aluminum Corp. of China), gli operatori delle principali economie avanzate continuano dunque a credere nel mercato cinese.
Mentre l'Amministrazione Biden sta passando al vaglio l'introduzione di nuove misure sui dazi contro la Cina, mantenendo sul tavolo persino le ipotesi più estreme, gli Stati Uniti sono alle prese con l'inflazione e lo spettro della recessione, che ha già fatto capolino a luglio, quando i dati relativi al secondo trimestre hanno mostrato una prima significativa contrazione del PIL (-0,9%).
Già da anni, Americans for Free Trade, cartello di associazioni di categoria e sindacati, chiede una revisione radicale delle politiche commerciali adottate dall'Amministrazione Trump con il ricorso alla Sezione 301 del Trade Act del 1974.
Secondo i dati elaborati dall'Associazione, i dazi messi in campo dalla Casa Bianca sono costati fin'ora ai cittadini statunitensi ben 129 miliardi di dollari, sotto forma di rincari di varia natura. Unico dato positivo - cioè un risparmio pari a 21 miliardi di dollari - è sin qui arrivato dalle esclusioni tariffarie che Trump aveva stabilito per oltre 2.200 categorie di importazione cui era praticamente impossibile rinunciare. Queste, tuttavia, sono scadute il 31 dicembre 2020 e la nuova Amministrazione ne ha ad oggi ripristinate soltanto 352 [MilanoFinanza]. Non è un caso che i mesi stimati come i più pesanti per le aziende e i consumatori americani in questi quasi cinque anni di guerra commerciale siano Agosto 2021 e Aprile 2022.
Nel comunicato diffuso dall'Associazione in seguito alla telefonata tra Joe Biden e Xi Jinping dello scorso 28 luglio, il portavoce Jonathan Gold, salutando positivamente il confronto, aveva spiegato che i dazi hanno fallito l'obiettivo di premere sulla Cina in merito alla correzione delle pratiche commerciali ritenute scorrette dalla leadership statunitense, producendo invece costi gravosi per le famiglie e le imprese americane in una fase di inflazione dilagante.
Se a fine luglio sembravano aperti nuovi possibili spiragli di distensione nelle relazioni bilaterali, due giorni dopo, la visita di Nancy Pelosi a Taiwan ha nuovamente scompaginato tutto. L'atto compiuto e le parole pronunciate dalla seconda carica del Paese nella linea di successione presidenziale, è stato interpretato dal governo cinese come un tentativo di riconoscere alla "provincia ribelle" uno status di quasi-indipendenza, in palese violazione della Risoluzione ONU 2758 del 25 ottobre 1971 e dei tre comunicati congiunti Cina-USA (1972, 1979 e 1982).
La dura risposta di Pechino, che ha sanzionato la stessa Pelosi e i suoi più stretti congiunti, non si è fatta attendere. Con cinque giorni di massicce esercitazioni militari attorno all'Isola di Formosa, il Comando del Teatro Orientale dell'Esercito Popolare di Liberazione ha messo in campo un vero e proprio test ad ampio spettro - terrestre, navale, aereo e informatico - mostrando alla controparte non solo la relativa facilità con cui potrebbe riconquistare Taiwan con la forza, in virtù della Legge anti-secessione del 2005, ma anche il significativo aumento, sia qualitativo che quantitativo, delle capacità militari rispetto ai tempi della crisi del 1995-'96 e della visita dell'allora portavoce della Camera Newt Gingrich nel 1997.
L'avvertimento a chiare lettere della leadership cinese alla Casa Bianca è stato esplicito: "Non scherzate col fuoco". Tuttavia non è ancora chiaro se questo si riferisca a possibili contromosse politiche o economiche. Stando agli ultimi dati del Dipartimento al Tesoro, infatti, lo scorso giugno Pechino ha messo in vendita titoli di Stato americani per il settimo mese consecutivo: una dismissione dai tanti significati, che ha sin qui fruttato al colosso asiatico circa 113 miliardi di dollari in tutto. La quota di debito estero statunitense in mano alla Cina è scesa così a 967,8 miliardi di dollari, il minimo dal maggio 2010. La mossa potrebbe essere una semplice risposta al dollaro forte degli ultimi mesi ma sono in molti a credere che le tensioni politiche stiano giocando un ruolo determinante.
I numeri degli ultimi due mesi ci diranno di più ma resta il fatto che la partita avviata da Biden nel Pacifico sembra destinata a finire molto presto con uno scacco matto. Le elezioni di medio termine e l'impatto sull'Europa delle tensioni con la Russia potrebbero presentare un conto salatissimo all'inquilino della Casa Bianca già in autunno.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia