(ASI) Si sta avviando alla conclusione in queste ore il Summit delle democrazie organizzato su iniziativa del presidente statunitense Joe Biden. Annunciato in primavera e confermato lo scorso giugno durante il G7 in Cornovaglia, il vertice voluto fortemente dalla Casa Bianca si è svolto in videoconferenza tra i capi di Stato o di governo di 110 dei 111 Paesi [il Pakistan ha declinato l'invito due giorni fa, nda] invitati ufficialmente dalla stessa Amministrazione nordamericana sulla base di una selezione che ha fatto molto discutere già nei giorni precedenti.
In particolare, Cina e Russia - escluse dall'evento assieme ad alleati della NATO come Turchia e Ungheria o partner strategici di Washington come Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar - hanno puntato il dito contro Biden, accusandolo di voler ricreare un clima da Guerra fredda con il pretesto di promuovere la causa della democrazia nel mondo. Il governo cinese ha preso logicamente molto male anche l'invito riservato a Taiwan, pur ufficialmente convocato come territorio e non come Paese, non fosse altro perché anche gli Stati Uniti, ormai dal 1979, aderiscono al principio di 'Una sola Cina', riconoscendo Pechino.
Nella settimana che ha preceduto questa due-giorni di dibattito a distanza, il portavoce del Ministero degli Esteri Wang Wenbin, molto attivo sui social, si è scagliato contro la decisione di Biden, non solo contestando i criteri alla base della selezione ma anche e soprattutto mettendo in discussione il primato democratico degli Stati Uniti a livello globale, da decenni perno attorno cui ruota il Washington Consensus.
In un post su Facebook di due giorni fa, Wang ha affermato senza mezzi termini che quanto accaduto a George Floyd, l'uomo soffocato con un ginocchio da un agente di polizia a Minneapolis l'anno scorso, è «semplicemente l'emblema della tragica situazione vissuta dai Neri Americani nei secoli passati», citando uno studio dell'Università di Washington che stima in circa 30.800 i cittadini statunitensi deceduti a causa di abusi delle forze di polizia tra il 1980 e il 2018, con gli afro-americani colpiti 3,5 volte in più dei bianchi americani.
Wang ha pubblicato sul suo profilo anche una video-inchiesta che critica il sistema politico statunitense in riferimento al lobbismo elettorale che, pur legale nel Paese, trasformerebbe ormai da anni la democrazia statunitense in una vera e propria "plutocrazia", cioè un sistema dove le élite industriali e finanziarie detengono un forte controllo sulla politica a scapito delle classi meno abbienti. Altro capitolo segnato da aspre polemiche è quello relativo alla politica estera di Washington, a partire dal concetto di "esportazione della democrazia", già al centro della dottrina di George W. Bush e Donald Rumsfeld tra il 2001 e il 2006. Una strategia finita in disgrazia poco tempo dopo, tra gli imbarazzi internazionali per il caso Nigergate e il falso dossier utilizzato per attaccare l'Iraq nel 2003.
La dose è stata poi rincarata da Wang con la pubblicazione di immagini, statistiche o vignette relative agli effetti sui civili provocati dai bombardamenti americani ai danni di Iraq, Libia, Siria, Afghanistan e Pakistan, senza dimenticare la Guerra del Vietnam e la cosiddetta "Guerra segreta" nel Laos, dove Washington portò avanti per quasi vent'anni (1957-1975) una vasta operazione clandestina nel tentativo di condizionare le sorti della guerra civile combattuta nel Paese all'indomani della sconfitta francese in Indocina.
Proprio in Asia Orientale, nella seconda metà del secolo scorso, gli Stati Uniti - ispirati dalla dottrina del "contenimento" di George F. Kennan e dalla teoria del Rimland di Nicholas J. Spykman, opportunamente riviste a qualche decennio di distanza dalle rispettive formulazioni - sostennero più o meno segretamente alcune tra le più autoritarie dittature politico-militari, come nella stessa Taiwan, dove il Kuomintang impose trentotto anni di legge marziale (1949-1987), i lunghi regimi di Suharto in Indonesia (1967-1998) e Ferdinand Marcos nelle Filippine (1965-1986) o i tre leader sudcoreani Syngman Rhee (1948-1960), Park Chung-hee (1962-1979) e Chun Doo-hwan (1980-1988), senza dimenticare il supporto di Washington in sede ONU al governo della Kampuchea Democratica di Pol Pot (1979), appena rovesciato dall'esercito di Hanoi nel quadro della guerra cambogiano-vietnamita.
Insomma, guardando a quella parte del mondo, sono ancora tantissimi gli scheletri negli armadi della Casa Bianca, del Dipartimento alla Difesa e della CIA. Per il tempo trascorso, gli imbarazzi, i pentimenti e i rimorsi, più o meno sinceri, viene da sé che in Occidente si preferisca non parlarne più, se non strettamente necessario. Tuttavia, molte ferite lasciate da quei decenni di decisioni drastiche e senza troppi scrupoli, da una parte e dall'altra della Cortina di Ferro, non si sono ancora rimarginate. E scorrendo la lista degli invitati sembra non essere scomparso il vecchio vizio del secolo scorso di voler dividere il mondo in "buoni" e "cattivi", soluzione già di per sé sbagliata ma ancor più illogica se si pensa che al vertice voluto da Biden hanno preso parte diversi Stati africani e centramericani che non figurano certo ai primi posti nel mondo per tutela dei diritti umani e civili, ed ancor meno per indici di sviluppo economico e sociale.
Sei giorni fa, il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha spiegato il suo concetto di «democrazia popolare per l'intero processo» in un nuovo documento dal titolo Cina: La Democrazia che funziona, sottolineando come «in un mondo caratterizzato da una ricchezza di differenze, la democrazia si presenta in molte forme e la democrazia cinese prospera insieme a quelle di altri Paesi nel giardino delle civiltà».
Al di là di quanto sostiene la leadership cinese, i livelli di crescita e benessere diffuso raggiunti in oltre quarant'anni di riforme e apertura, la presenza di altri otto partiti oltre quello comunista presso l'Assemblea Nazionale e la Conferenza Politico-Consultiva, l'elezione a suffragio universale delle assemblee popolari locali (primo livello del sistema gerarchico di rappresentanza), la libertà di iniziativa economica, la libertà di culto e l'autonomia amministrativa su base etnica per le minoranze praticata in 5 regioni, 30 prefetture, 117 contee e 3 bandiere (quest'ultime previste soltanto nella Mongolia Interna) impediscono oggettivamente di definire la Cina nei termini di una dittatura pura e semplice.
Se il sistema politico cinese resta ancora sostanzialmente incomprensibile per gran parte dell'opinione pubblica occidentale che - complice anche un eccesso di semplificazione, un deficit di conoscenza o il pregiudizio di certo mainstream - si rifiuta di accettare e legittimare il gigante asiatico nel quadro di una normale dialettica paritaria tra Stati espressione di diverse storie e civiltà, l'economia ci riporta comunque alla realtà.
Lo scorso 6 dicembre, il primo ministro Li Keqiang ha partecipato in videoconferenza all'ultima tavola rotonda "1+6" tra la Cina e i leader delle più importanti organizzazioni economiche internazionali: David Malpass (Banca Mondiale), Kristalina Georgieva (FMI), Ngozi Okonjo-Iweala (WTO), Guy Ryder (ILO), Mathias Cormann (OECD) e Klaas Knot (FSB). Citando il presidente Xi Jinping, secondo cui la comunità internazionale dovrebbe restare unita per costruire un futuro migliore, Li ha sottolineato l'importanza della cooperazione in funzione della ripresa dell'economia mondiale dalle conseguenze della pandemia.
In particolare, secondo il primo ministro cinese, «tutte le parti dovrebbero accelerare i rispettivi sforzi per consolidare i collegamenti nelle forniture, promuovere la ripresa della capacità produttiva in maniera ordinata, facilitare il trasporto internazionale delle merci e preservare la sicurezza e la stabilità delle catene industriali e logistiche». Li ha ricordato la piena integrazione dell'economia cinese in quella globale e ha ribadito la promessa di aprire ulteriormente il mercato in modo ancora più profondo.
La Cina è stata il secondo mercato di importazione al mondo per dodici anni consecutivi - ha proseguito Li - durante i quali ha continuato a favorire l'accesso al mercato per gli investimenti stranieri, ha partecipato attivamente alla cooperazione economica regionale, ha spinto per la ratifica e l'entrata in vigore, prevista a breve, del Partenariato Economico Globale Regionale (RCEP), chiedendo infine l'adesione all'Accordo Globale e Progressivo per il Partenariato Trans-Pacifico (CPTPP) e all'Accordo per il Parternariato sull'Economia Digitale (DEPA).
I dati della Rappresentanza al Commercio (OUSTR) dell'Amministrazione Biden dicono che, nonostante la pandemia, nel 2020 la Cina si è confermata primo fornitore di beni degli Stati Uniti per un volume pari a 434,7 miliardi di dollari, in calo del 3,6% rispetto al 2019 ma in crescita del 19% rispetto al 2010 e del 325% rispetto al 2001. Al contempo, la Cina rappresenta il terzo maggior mercato per l'export di beni statunitensi con un volume pari a 124,5 miliardi di dollari, in crescita del 16,9% rispetto al 2019, del 35% rispetto al 2010 e del 549% rispetto al 2001.
Sommando import ed export nelle due direzioni, il deficit commerciale di beni statunitense rispetto alla Cina è diminuito contestualmente del 9,9% rispetto al 2019, scendendo a quota 310,3 miliardi di dollari, mentre il commercio di servizi, seppur in calo nel 2020, registra ancora un surplus in favore degli Stati Uniti (+24,8 mld $). Lo scorso anno sono aumentati anche gli investimenti diretti esteri statunitensi in Cina (+9,4%) per un ammontare complessivo pari a 123,9 miliardi di dollari, trainati da manifattura, commercio all'ingrosso, servizi finanziari e assicurativi. Calano, invece, quelli cinesi negli Stati Uniti (-4,2%), scendendo a quota 38 miliardi di dollari.
Con l'ascesa di una sempre più numerosa classe media, prossima ormai a sfondare quota mezzo miliardo di persone, e la forte spinta digitale trainata dai colossi domestici del settore, la Cina è ormai diventata una destinazione insostituibile per molte imprese occidentali, consapevoli che la storia non può tornare indietro. Le leadership dei Paesi NATO lo sanno bene e fare finta che non sia così, provocando scontri geopolitici ed incomprensioni diplomatiche, non è una buona soluzione. Malgrado gli auspici e le frasi di rito, insomma, il divisivo summit di Biden pare destinato a finire presto in soffitta.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia