(ASI) Il dato incontrovertibile è che la Cina, negli ultimi anni, grazie alla manodopera a basso costo sia diventata una potenza su scala globale. Si tratta della seconda economia al mondo per PIL (Prodotto Interno Lordo), alle spalle degli Stati Uniti d’America.
Proprio in virtù di questa sua strepitosa ascesa la Cina desta a Washington forte preoccupazione, accresciuta dal fatto che una quota del debito pubblico americano appartiene all’emergente colosso asiatico. Nei giorni scorsi il presidente statunitense Obama ha effettuato un viaggio diplomatico nei Paesi dell’Asia affacciati sull’oceano Pacifico (che bagna anche le coste ovest degli Stati Uniti). Indicativo che Obama non sia passato per Pechino e che, anzi, si sia occupato di rafforzare i rapporti d’amicizia tra gli Stati Uniti e i suoi più stretti alleati nella regione: Giappone, Corea del Sud, Australia (quest’ultima in Oceania). Una missione persegue il fine di intensificare la presenza militare americana nel territorio, un accordo siglato tra Stati Uniti e Australia prevede infatti un maggiore dispiegamento di forze armate americane nel Pacifico da attuarsi entro il 2016. La Cina ha interpretato la mossa di Obama come un tentativo di operare un accerchiamento nei suoi confronti, in tal senso sembrano orientate le parole stizzite di un portavoce del ministro degli Esteri cinese, Liu Weimin: “Probabilmente non è appropriato intensificare ed espandere le proprie alleanze militari in questa regione”. E’ appropriato invece, dal momento che la Cina rappresenta per la Casa Bianca uno spettro da esorcizzare, a quanto pare non con gli incantesimi ma ostentando i muscoli.
Tuttavia, se è incontrovertibile che la Cina sia oggi una potenza di enormi dimensioni, non è altrettanto scontato che questa progressione condurrà il Paese asiatico ad insidiare il primato di dominio mondiale agli Stati Uniti, nonostante vi sia l’aggravante del debito contratto da questi ultimi nei confronti della finanza cinese. Stando ad un recente studio di Richard Jackson e Neil Howe pubblicato dal “Centro per gli studi strategici e internazionali” di Washington (L’invecchiamento nel Regno di Mezzo: aspetti demografici ed economici delle politiche pensionistiche in Cina), il colosso asiatico rischia di crollare su se stesso. La causa è da ricercare nella politica del figlio unico per ogni coppia (attuata spesso con metodi atroci come arresti, aborti e infanticidi). I due analisti americani pongono poi l’accento sul recente incremento delle aspettative di vita dei cinesi, una vera e propria rivoluzione demografica che tra qualche anno farà sì che non ci saranno abbastanza giovani lavoratori per mantenere un mastodontico esercito di vecchi e di pensionati. Si stima che nel 2040 in Cina ci saranno 397 milioni di abitanti anziani e inabili al lavoro, cioè una popolazione maggiore di quelle di Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna e Giappone messe insieme. Lo studio prevede uno scenario beffardo per il Paese asiatico: “Le società dei Paesi sviluppati di oggi sono diventate ricche prima di invecchiare: la Cina potrebbe essere la prima grande nazione a invecchiare prima di arricchirsi”. Già, perché in questo scenario futuro nel quale la Cina si riempirà d’anziani, a causa della denatalità il numero di cinesi in età lavorativa sarà diminuito del 18% rispetto ad oggi secondo le previsioni del governo cinese e del 35% secondo l’Onu. Cifre che impongono a Pechino di trovare il modo di prendersi cura di un numero maggiore di anziani non autosufficienti senza che ciò ricada eccessivamente su contribuenti e famiglie. Oggi le pensioni in Cina sono bassissime o addirittura inesistenti, ma un domani l’incremento della popolazione anziana darà man forte alle loro istanze e lo stato sociale dovrà occuparsi seriamente di questa nuova problematica.
La crisi che attende la Cina rivela che il calo demografico costituisce un flagello per la società: anche un brillante ed emergente Paese lanciato nell’economia liberista con disinvolta spregiudicatezza deve arrendersi all’assunto secondo il quale fare meno figli equivale a scontrarsi con gravi problemi economici. Del resto, non esiste finanza creativa né operosità imprenditoriale che possano sopperire, in seno ad ogni società umana, alla mancanza di quella intraprendenza primordiale che scaturisce tra un uomo e una donna e produce vita, dunque ricchezza (non solo materiale). Per questo si rende necessario, come affermato da Benedetto XVI nel febbraio scorso davanti alla Commissione per lo sviluppo sociale dell’Onu, che gli Stati si impegnino a “varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società”.
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