Il Tibet non è l'Iraq.
Le anime morte II°
di Alessandro Mezzano
(ASI) Quattro anni fa scrivemmo un articolo con lo stesso titolo sulla situazione del Tibet. Dopo quattro anni purtroppo nulla è cambiato e l'ipocrisia del mondo occidentale che continua a fare guerre in tutto il mondo facendo finta che siano in nome e per conto della democrazia e delle libertà mentre sono solamente per la difesa di interessi strategici e commerciali, continua ad ignorare il quotidiano martirio del popolo Tibetano che non rappresentando alcuno di quegli interessi non suscita né solidarietà né aiuti concreti!
Per questo motivo e per mantenere l'impegno che prendemmo di non lasciare morire nell'oblio la sacrosanta causa del Tibet, riproponiamo oggi quell'articolo che è purtroppo ancora attualissimo.
Un giorno, moltissimi anni fa, la reincarnazione del Buddha capitò nel Bhutan, tra le montagne della catena dell'Himalaya, là dove l'aria è così limpida che le vette altissime sembrano tanto vicine, da potersi toccare.
Il Buddismo Himalayano, variante del tradizionale Buddismo nato in India, viene predicato in quelle terre tra la popolazione che, fino ad allora, poggiava le sue credenze in una moltitudine di Dei e Demoni in lotta tra di loro per la prevalenza del bene e del male.
Da questa data remota e leggendaria, incomincia per il Tibet una nuova era.
La nuova religione fa talmente presa sui popoli di queste terre, che diventa parte essenziale della vita, permeandola a tal punto da diventare precetto, etica e Legge civile nello stesso tempo tanto che in breve, l'autorità religiosa e quella del Governo del Paese s'identificano nella persona del Dalai Lama che, secondo i Tibetani, è la reincarnazione in successive vite, del primo profeta del nuovo Buddismo.
Inizia così un lungo cammino spirituale per una cultura che si evolve raffinandosi in una spiritualità sempre più profonda.
Nascono diverse migliaia di monasteri e, su una popolazione di 2.500.000 persone, i monaci sono ben 400.000.
Poi, nel 1950, per motivazioni unicamente imperialiste, la Cina comunista invade il Tibet e comincia un'era di persecuzioni sistematiche, una pulizia etnica culturale che vuole distruggere tanta spiritualità.
Epurazioni, deportazioni, restrizioni religiose e la distruzione fisica di circa 5.000 monasteri si susseguono senza riuscire a piegare la resistenza dei Tibetani che, fino al 1959 tentano per ben tre volte di ribellarsi.
Le insurrezioni sono stroncate nel sangue ed alla fine il Dalai Lama e una consistente parte della popolazione, fuggono in India.
Oggi la repressione del governo comunista Cinese è ancora dura ed accompagnata da massicce immigrazioni di cinesi nel territorio per impossessarsene, così come fece il comunista Tito con i territori dell'Istria.
E' una delle molte tragedie dimenticate dal mondo occidentale.
L'America, formalmente sempre così sensibile alle persecuzioni ed agli attentati alla libertà dei popoli, tace e non si sogna di intervenire. Il Tibet non è il terzo produttore di petrolio di tutto il medio oriente e le 7 sorelle non sono interessate ai patrimoni di spiritualità e di cultura che non hanno circolazione nelle banche mondiali, né costituiscono un pericolo per l'alleato/padrone degli USA, lo stato di Israele..
Per combinazione, in Tibet non c'è petrolio, né questo territorio rappresenta un'area d'interessi commerciali o strategici, ma anzi, scontrarsi con la Cina vuol dire essere messi fuori da un mercato di un miliardo e mezzo di persone. Un mercato in continuo sviluppo e dalle enormi potenzialità future.
Ed allora non si può assolutamente intervenire, non diciamo militarmente, ma nemmeno tenendo viva la questione sui mezzi d'informazione internazionali, tramite l'ONU o mediante opportune azioni diplomatiche, per non disturbare le trame finanziarie del turbocapitalismo mondialista che sta intessendo rapporti e sviluppando progetti immensamente redditizi, a breve ed a lungo termine.
Va bene i "diritti umani", ma, prima di tutto, la bottega.! Anche l'Europa, per la verità, tace e non solo come federazione di Stati che purtroppo, non casualmente, non ha un'univoca politica estera, ma anche nella specificità dei singoli componenti, il che sta a dimostrare la sudditanza al "boss" USA.
A tutto ciò si aggiunga la considerazione che una fondamentale parentela ideologica, per quanto paradossale possa sembrare, esiste tra la Cina Comunista e gli USA ed è la comune matrice profondamente materialista che nega qualsiasi peso ai valori spirituali della civiltà Tibetana.
Inoltre il Tibet non fa parte di quella porzione del mondo dell'Islam suggestionabile dal potere dei dollari come Kossovo, Albania, Turchia ed altri che gli Usa stanno coccolando in chiave di contrapposizione al successo del progetto Europeo che, se realizzato, rappresenterà, questo si, un temibile avversario politico, strategico e commerciale per l'Amerika!
Noi, al contrario, "non abbiamo orecchio" per cantare nel coro e, se pur piccoli, se pur inascoltati, denunciamo il sopruso della Cina, compiuto con la complicità del silenzio del mondo filo Amerikano e, come per i Palestinesi, rivendichiamo, per i Tibetani il diritto a vivere nella propria terra, nella propria cultura, nella propria civiltà!
Difronte ad un ONU impotente ed inefficiente soprattutto a causa dei condizionamenti del potere di veto dei componenti permanenti del Consiglio di sicurezza (USA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA, CINA, RUSSIA) che essendo in grado di bloccare qualsiasi decisione sgradita, impongono, di fatto, una tirannica oligarchia, noi chiediamo la soluzione del problema attraverso una Rifondazione di quest'organismo internazionale sulla base di maggiore equità, parità di diritti dei membri e maggiore potere decisionale e d'intervento. Insomma un vero e proprio Governo Mondiale con competenza su tutti quei problemi di carattere generale che investono gli interessi ed i diritti del Pianeta nel suo complesso.
Intanto noi parliamo del TIBET, facciamo il tam - tam sostituendoci alla comunicazione istituzionale che tace, non lasciamo che il problema muoia e che quelle terre siano trasformate veramente nelle terre delle anime morte.
A tutt'oggi noi non possiamo fare molto di più che ricordare a tutti e sollecitare la coscienza ( sempre che una coscienza abbiano ) della politica nazionale ed internazionale affinché, per una volta, si dia priorità ai principi ed ai valori rispetto al denaro ed agli affari.
Che la Cina sia un mercato da un miliardo e mezzo di consumatori e che possieda grandi quote dei debiti pubblici dell'occidente non vuole dire che essa sia dalla parte della ragione e che non la si debba contrastare con forza e con tenacia in difesa di un popolo che chiede solamente di essere libero di vivere secondo le proprie convinzioni ed i propri principi.
Ricordiamo che la difesa della libertà del popolo Tibetano oggi può voler dire la difesa della nostra libertà di domani .!!!