(ASI) E' ufficialmente scoppiata una nuova pesante crisi tra la Casa Bianca e l'AIPAC, la potente lobby israelo-americana attiva negli Stati Uniti. E' un fatto raro, ma non è la prima volta nella storia del Paese.
Già nella prima metà degli anni Cinquanta, infatti, la politica mediorientale di Dwight Eisenhower, sfidando la contrarietà di Israele, aveva avvicinato l'amministrazione statunitense alle ragioni del presidente egiziano Nasser per cercare di impedire che il trionfante nazionalismo panarabo volgesse il suo sguardo verso Mosca, espandendo la sfera d'influenza sovietica in una delle regioni strategicamente più importanti al mondo.
La crisi di Suez del 1956 accentuò le tendenze in campo, polarizzò definitivamente il conflitto e fece dell'Egitto il simbolo di una resistenza anti-coloniale (contro le vecchie potenze conquistatrici di Francia e Gran Bretagna) e anti-sionista (contro Israele, che cercava di espandere i suoi territori sul Sinai), con l'appoggio politico dell'URSS, scatenando le ire di Washington che arrivò a minacciare la richiesta di sanzioni punitive nei confronti di Tel Aviv.
Gli israeliani ancora ricordano l'ex capo di stato maggiore americano come l'inquilino della Casa Bianca più ostile nei loro confronti nel corso del Novecento. Probabilmente, però, in sede di dibattito storico, in futuro questo primato sarà insidiato da Barack Obama che, dopo aver speso almeno quattro dei suoi quasi otto anni di presidenza a ridisegnare il mondo arabo-islamico con la matita e il righello della Fratellanza Musulmana, si ritrova ora a dover scendere a patti con l'Iran al termine di una lunga, complessa e faticosissima trattativa per l'approvazione del programma nucleare di Tehran.
Il caos nel mondo arabo
L'azione politica di Washington in Siria è sicuramente alle origini del disastro geopolitico in cui è piombato il mondo arabo. La guerra in Libia ha contribuito a destabilizzare il Paese dell'ex presidente Gheddafi, creando il primo enorme "buco nero" a disposizione del radicalismo estremista di al-Qaeda. Con la Libia in fiamme, per l'AQIM (la branca maghrebina della rete guidata da al-Zawahiri) è stato fin troppo facile svaligiare depositi di armi e munizioni, radicare quartier generali nei principali centri del Paese fino a tentare addirittura l'espansione in Algeria e nel Mali. Il più recente passaggio di alcuni gruppi radicali sotto le bandiere del crescente Stato Islamico (ISIS), ha aumentato il livello di rischio non solo per il mondo arabo ma per tutta la regione mediterranea, come dimostrano gli attentati in Francia e alcuni recenti arresti per reati connessi al terrorismo in Italia.
E' qui che entra in gioco la Siria, laddove l'amministrazione americana e i vertici dell'Unione Europea hanno sostenuto per almeno tre anni (marzo 2011 - marzo 2014) le ragioni dell'opposizione armata (in guerra contro il presidente Bashar al-Assad), senza considerare che tra le sue file si annidavano migliaia di jihadisti, emersi alla ribalta delle cronache internazionali soltanto nell'estate del 2014 con la diffusione dei primi filmati minatori del "califfo" al-Baghdadi. La situazione siriana ha di fatto ridisegnato la mappa dei movimenti e delle alleanze nel mondo arabo, sancendo un'insanabile frattura tra i partiti filo-governativi siriani e il principale movimento di resistenza palestinese, Hamas. L'appoggio fornito dal partito religioso all'opposizione armata siriana ha inevitabilmente e definitivamente spostato l'asse dell'Intifada dal laicismo dell'OLP al radicalismo salafita. L'egemonizzazione della politica palestinese da parte di Hamas e delle Brigate al-Quds ha attirato la famiglia reale del Qatar verso Gaza, dove l'Emirato ha subito promesso ingenti investimenti economici.
L'attivismo militare di Netanyahu
Nel frattempo Israele, ostile sia verso ciò che resta del vecchio panarabismo (per l'occasione alleato con il fronte sciita dell'Iran e degli Hezbollah libanesi) sia verso l'islamismo, si è mantenuto essenzialmente equidistante ma non passivo. L'attivismo militare di Tel Aviv ha portato Tsahal a pianificare almeno quattro raid aerei contro obiettivi strategici in territorio siriano (30 gennaio 2013, 5 maggio 2013, 7 dicembre 2014 e 25-26 aprile 2015), ma anche due operazioni massicce contro la Striscia di Gaza, ovvero "Pilastro Difensivo" e "Scogliera Solida", condotte tra il novembre 2012 e l'agosto 2014, di fronte alle quali i petro-dollari del Qatar non hanno potuto nulla. Il bilancio di "Pilastro Difensivo" è stato impietoso per Hamas: 8 dirigenti uccisi, tra cui il capo militare Ahmed al-Jabari, e 1.506 missili lanciati, di cui 875 in aperta campagna, 152 falliti o lanciati per errore dentro il territorio di Gaza, 58 nelle aree urbane e 421 intercettati dal potente sistema difensivo anti-missile israeliano Iron Dome. Il bollettino di "Scogliera Solida" è invece un'ecatombe di circa 1.900 civili palestinesi uccisi, tra cui molti bambini, in una risposta del tutto sproporzionata e irrazionale rispetto all'altrettanto orribile rapimento-omicidio di tre giovani israeliani nelle settimane precedenti l'attacco. All'epoca, sebbene timidamente, Obama prese le difese di Israele, in contrasto con il generale coro internazionale che condannava quasi unanimemente la durezza dell'intervento deciso da Netanyahu che, partendo dalla comprensibile istanza della sicurezza del Paese, si è poi spinto molto oltre i semplici obiettivi della lotta al terrorismo, sulla triste scia di "falchi" storici come Ben Gurion e Moshe Dayan.
Le elezioni del marzo scorso hanno conferito al primo ministro israeliano un consenso inaspettato, facendo del Likud (30 seggi) il partito-guida del Paese e spostando ulteriormente l'asse della Knesset verso destra, con l'ingresso nella coalizione di governo del partito HaBayit HaYehudi ("Casa Ebraica") guidato da Naftali Bennet e di altre formazioni ultra-ortodosse. Tuttavia, la defezione del falco Avigdor Lieberman (Israel Beitenu, 6 seggi), che pretendeva la poltrona di ministro degli Esteri, ha ristretto il vantaggio della maggioranza parlamentare ad un solo seggio, indebolendo di fatto il nuovo esecutivo di Netanyahu, di fronte ad un'opposizione di centro-sinistra (l'Unione Sionista di Herzog e Livni) che lo tallona costantemente.
Di fronte all'ennesima pressione israeliana sull'accordo con l'Iran, Barack Obama, ormai giunto quasi alla fine del suo secondo ed ultimo mandato, deve aver dunque perso la pazienza, fatto i suoi calcoli e tirato dritto sfogando la sua riprovazione, senza tirare in ballo direttamente Israele ma il suo più fidato gruppo di pressione negli Stati Uniti. Poche ore dopo il suo incontro con alcuni dirigenti dell'AIPAC alla Casa Bianca, il presidente americano ha detto esplicitamente in un discorso pubblico che "i lobbisti spendono milioni di dollari per campagne retoriche da falchi liberali come quelle che hanno impantanato gli Stati Uniti nella guerra in Iraq". Le indiscrezioni pubblicate dal New York Times descrivono un Obama molto arrabbiato per gli attacchi ricevuti e per le vignette di alcuni giornali e siti internet che lo ritraevano come un novello Neville Chamberlain in procinto di firmare il patto di Monaco con Hitler nel 1938.
Ora la priorità americana non è Israele
L'obiettivo generale di Tel Aviv è evidentemente quello di far saltare entro il 2016 l'accordo sul nucleare iraniano appena raggiunto. Il protocollo di Vienna prevede infatti la dilatazione da 2-3 mesi ad almeno un anno del tempo minimo entro cui l'Iran potrebbe acquisire (se mai lo volesse) materiale atomico sufficiente per la realizzazione di una bomba. Ma l'AIPAC sa bene che intanto la partita è altrove, cioè al Congresso. Entro il 17 settembre prossimo, infatti, le due camere dovranno esprimersi sulla ratifica dell'accordo raggiunto da Obama, e non sono pochi i parlamentari democratici a guardare con sfiducia all'intesa. Tra questi c'è il senatore newyorchese Chuck Schumer (di religione ebraica), uno dei più in vista nel Partito Democratico. La partita, dunque, si preannuncia accesissima.
Nei mille equilibri del Medio Oriente, Washington deve ricomporre i cocci di un vaso che con le "primavere arabe" si è rotto in mille pezzi. Da un lato la minaccia dell'ISIS e dall'altro la situazione critica in Ucraina hanno convinto Obama dell'importanza di mediare con l'Iran per mantenere un equilibrio geopolitico tra sunniti e sciiti ed una fondamentale stabilità economica nel Golfo Persico. Dopo il fallimento dell'esperienza di Morsi in Egitto e dell'iniziativa saudita in Yemen, l'attivismo turco e il militarismo israeliano sono ormai solo fattori di disturbo per la strategia d'uscita della Casa Bianca in Medio Oriente. Tra le tante ipotesi, insomma, emerge un dato oggettivo: in quasi tutti gli scenari regionali gli Stati Uniti ormai non possono più assumere decisioni unilaterali (come vorrebbe Israele in suo favore) ma sono costretti a mediare con Iran, Cina e Russia.
* Andrea Fais è direttore responsabile della rivista "Scenari Internazionali" e collaboratore del quotidiano cinese in lingua inglese "Global Times".