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Mes e patto di stabilità: ovvero come l’economia italiana muore a Bruxelles
(ASI) Da quasi un anno, per la precisione dallo scorso luglio, è in vigore il Meccanismo europeo di stabilità, o patto salva Stati, che, insieme al Trattato di stabilità, o Fiscal compact, inciderà pesantemente sulle scelte di politica economica e fiscale del governo Letta, vale quindi la pena soffermarsi su queste due norme per caprine meglio il funzionamento e il loro peso all’interno dell’Unione europea.

Tutto nasce ufficialmente nel 2009 con la crisi che mette in ginocchio le economie dei cosiddetti Piigs, ovvero Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. Subito Bruxelles si mette in moto nel tentativo di trovare una soluzione atta ad impedire il crollo della moneta unica e di conseguenza l’economia di tutta la regione. Per fare ciò la Ue inizia ad elargire prestiti esosi tramite degli appositi fondi di salvataggio che hanno via via svuotato di prerogative i parlamenti nazionali.

Il Mes in sostanza è figlio di quei prestiti e rappresenta il sistema utilizzato dalla Ue per far pagare ai cittadini stessi quei fondi di salvataggio.

Tramite questo sistema vengono sì erogati dai prestiti, ovviamente a condizioni molto esose, ai paesi della comunità non più in grado di assolvere ai propri obblighi finanziari.

Spulciando tra i vari commi e cavilli di questo accordo all’articolo 8 si legge che questo nuovo organismo, che comprende i ministri delle Finanze di 17 diversi Paesi, avrà a disposizione un capitale di 700 miliardi di euro; nell’articolo 10 viene invece precisato che il Consiglio dei governatori può decidere di  mutare l’importo e di adeguare l’articolo 8 in conseguenza degli avvenuti cambiamenti; all’articolo 9 viene invece disposto che il Consiglio dei governatori possa in qualsivoglia momento esigere del capitale sociale non ancora versato, perfino in meno di una settimana.

E gli eventuali appigli per i paesi che dovessero aver necessità di ricorrere a questi prestiti? Praticamente non previsti visto che non si fa menzione di un possibile diritto di veto da parte dei singoli parlamenti nazionali che vengono così a perdere una delle loro prerogative fondamentali: determinare le entrate e le uscite della propria nazione.

Unica via di uscita sembra essere quella fornita dall’articolo 5.6 in base al quale ogni decisione deve essere approvata all’unanimità da tutti i 17 diversi ministri presenti alle riunioni; difficile ipotizzare che così tante persone riescano ad essere in sintonia e che un ministro possa votate a favore dell’affossamento della propria nazione; ovviamente c’è un ma.

Non è infatti necessario che tutti i 17 siano  d’accordo; una decisione può essere valida anche quando i ministri non sono tutti  presenti. ogni ministro rappresenta infatti un numero di voti, proporzionale al capitale  sottoscritto dal suo paese, quando i due terzi dei  ministri che rappresentano i due terzi dei voti totali sono presenti, possono votare validamente, basta che non ci siano nessuno, nemmeno in rappresentanza di un piccolo Stato, che voti contro.

Oltre ai rappresentanti dei 17 stati interessati alle riunioni del Mes saranno presenti anche, con il semplice status di osservatori, il membro della Commissione europea responsabile per gli Affari economici e monetari, il Presidente dell’Eurogruppo ed il Presidente della Banca Centrale Europea.

In contemporanea con il Mes il parlamento italiano ha ratificato anche il Trattato di stabilità sul coordinamento e la governance nell’Unione economia e monetaria che dal 2015 obbliga l’Italia a ridurre in modo costante il rapporto debito/Pil fino al 60%, ciò teoricamente sembra andare incontro alle esigenze della nostra economia non più in grado si sostenere le uscite legate al welfare ma la questione è molto più complessa.

In base a questo accordo il nostro Paese dovrà tagliare per due decenni ogni anno 45 miliardi di debito pubblico, cifra che si andrà a sommare ai 15 miliardi in tre anni che dovranno uscire dalle casse statali per finanziare il Mes.

Questo documento ovviamente traccia la strada per arrivare a questo obiettivo ponendo dei paletti molto rigidi da non oltrepassare pena sanzioni che potrebbero arrivare fino allo 0,1% del Pil.

L’Europa quindi chiede all’Italia nuovi tagli alla spesa e il nuovo governo Letta non si tirerà certo indietro.

Fabrizio Di Ernesto - Agenzia Stampa Italia

 
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