(ASI) Mancano meno di due mesi al XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese. Il gremito evento pechinese seguirà – a cinque anni di distanza – l’ultimo consesso svolto nel 2007 ma lo supererà senz’altro per importanza e per significato politico e amministrativo. Sarà l’ultima volta, infatti, che Hu Jintao presiederà il vertice nel ruolo di presidente della Repubblica Popolare Cinese.
Dieci anni sono passati dalla sua elezione a segretario generale del Partito Comunista Cinese e oltre nove da quando prese in mano le redini della prima carica istituzionale della nazione, subentrando a Jiang Zemin. Si trattava di una fase molto delicata, un passaggio di consegne pronto a passare agli annali in un momento di grande incertezza interna per il gigante asiatico. Le politiche di riforma e di apertura stabilite nel 1979 da Deng Xiaoping avevano scosso l’intera Repubblica Popolare, imprimendo un decisivo impulso allo sviluppo economico nazionale attraverso una formula che da allora sarebbe divenuta celebre in tutti i Paesi in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa: le Zone ad Economia Speciale, dove consentire primi ma decisivi margini di manovra agli investimenti privati locali e stranieri.
Con questo esperimento economico, la teoria politica del Partito Comunista Cinese si arricchiva di nuove esperienze e nuovi dati sperimentali da cui trarre le dovute conclusioni per tentare la scalata verso la modernizzazione. Nel fondo, tuttavia, non c’era nulla di nuovo: la linea che si era imposta all’interno del Partito dopo almeno un decennio di lotte interne e durissimi scontri, era quella proposta negli anni Sessanta dal dirigente comunista Liu Shaoqi all’indomani del palese fallimento della riforma agraria del “Grande Balzo in Avanti”; una linea passata alla storia con la formula delle “quattro modernizzazioni”. Essa nella sostanza non era poi così lontana dalla direzione “efficientista” e “modernizzatrice” indicata dalla Nuova Politica Economica adottata da Lenin nell’Unione Sovietica degli anni Venti, per consentire al vastissimo territorio della Russia Bolscevica di fuoriuscire dalle sabbie mobili di una sanguinosa guerra civile.
Preso atto della pesante situazione di arretratezza in cui si trovava la Cina dell’epoca dopo un secolo di umiliazioni coloniali e di devastazioni (1839-1949), Liu Shaoqi e i suoi fedelissimi rifiutavano la logica radicale della lotta di casse intesa come cardine dogmatico e permanente della dottrina del Partito, privilegiando lo sviluppo dell’economia nazionale e delle forze produttive fino ad acconsentire – laddove necessario e comunque sotto l’indiscusso controllo dello Stato e del Partito – anche alla formazione di una borghesia nazionale a carattere progressivo, sulla scia di quanto Mao aveva già scritto a proposito del ruolo di Tsai Ting-kai negli anni della guerra contro l’invasione giapponese e della guerra civile tra i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti del Kuomintang di Chiang Kai-shek. Affascinante nel suo intento patriottico, tuttavia osteggiata e combattuta dalle ali intransigenti della “sinistra” interna al Partito Comunista Cinese, questa teoria, una volta divenuta pratica, ha mostrato pro e contro, consentendo al Paese orientale di accumulare enormi vantaggi in termini di sviluppo economico, infrastrutturale ed energetico ma generando o ampliando anche diverse contraddizioni e contrasti interni, come quelli tra Città e Campagna o tra Est ed Ovest del Paese e anche alcune sacche di corruzione interna sfuggite al controllo dello Stato.
A ciò è servita la teoria delle Tre Rappresentanze, sancita da Jiang Zemin nel 2000, in base a cui il Partito Comunista Cinese veniva inquadrato come il contemporaneo rappresentante e referente istituzionale delle forze produttive economiche più avanzate, delle avanguardie scientifiche e culturali più innovative e della stragrande maggioranza della popolazione nazionale. Lo sviluppo inizialmente caotico e disordinato, che ha toccato il suo apice proprio durante la terza generazione del Partito (e specificamente intorno alla metà degli anni Novanta), è stato dunque modulato secondo i ritmi di una crescita ponderata ed equanime in virtù della teoria dello sviluppo armonioso, stabilita proprio da Hu Jintao nel 2003: il concetto confuciano di “armonia” viene così applicato sia alla politica interna sia a quella estera, promuovendo programmi indirizzati alla stabilizzazione dell’avanzamento economico, alla redistribuzione delle ricchezze attraverso un potenziamento delle tutele sociali-previdenziali e alla costruzione di relazioni internazionali a carattere bilaterale o multilaterale di tipo pacifico e dal mutuo vantaggio (win-win strategy).
Recentemente il caso relativo all’ex sindaco della megalopoli di Chongqing, Bo Xilai, ha riempito (spesso in modo esacerbato) le pagine dei giornali europei, i quali da par loro si sono prontamente lanciati in ipotetiche riletture della vicenda da un punto di vista marcatamente ideologico, seguendo chiavi di lettura vecchie ed anacronistiche che, ad oltre quaranta anni dalla “rivoluzione culturale”, non hanno più alcun senso né attinenza con la realtà quotidiana della nazione asiatica. Presso alcuni opinionisti occidentali, si era difatti supposto che Bo, fantomatico “eroe” anti-corruzione ed espressione politica di una non meglio precisata “sinistra maoista” interna al Partito, fosse vittima di un complotto ordito dalla “nomenclatura di regime” e dalle immancabili “gerarchie oscure” della Repubblica Popolare Cinese, per impedire che la presunta sete di giustizia sociale lo portasse ad indagare le attività economiche illecite presenti nell’area metropolitana di Chongqing.
In realtà, dalle indagini sono emerse vicende torbide, in cui la storia personale di Bo e quella della sua famiglia si intrecciano in modo piuttosto evidente con l’Ambasciata degli Stati Uniti, dove un suo collaboratore avrebbe addirittura chiesto asilo politico, e con i vizi e i lussi sfrenati di cui moglie e figlio si sarebbero ricoperti sino a pochi mesi fa. Sullo sfondo, la cronaca nerissima dell’omicidio di un uomo d’affari britannico che è costato alla moglie dell’ex sindaco, Gu Kailai, una condanna a morte con sospensione biennale, ossia tramutabile in ergastolo o addirittura a soli quindici anni in caso di buona condotta nel periodo di sospensione della pena e di detenzione successiva.
Tutto questo clima di distorsione dei fatti è stato inoltre accompagnato da diversi altri articoli e approfondimenti, che sembrano nascere con l’intenzione di voler a tutti i costi imporre un quadro di incertezza assoluta e di precarietà nel computo complessivo dei rapporti di forza interni alla macchina amministrativa della Repubblica Popolare. La linea politica che si è affermata nei nove anni della presidenza Hu Jintao e del premierato di Wen Jiabao costituisce invece uno dei cementi più compatti per tutto il Partito Comunista Cinese, che ha potuto finalmente dedicarsi alla ricostruzione di una solidità interna di lungo periodo, assente ormai da almeno quarant’anni. La teoria dello sviluppo armonioso ha così dotato la dirigenza politica dei migliori strumenti per il riassetto del potere, indicando al contempo anche la via per il futuro. Nel discorso che Hu Jintao pronunciò lo scorso anno in occasione della ricorrenza del 90° anniversario dalla nascita del PCC, sono contenute alcune fra le più importanti direttive degli ultimi anni: rafforzamento del già preminente ruolo dello Stato e della capacità di modernizzazione tattico-operativa (“xinxihua”, come sancito dal presidente Jiang Zemin nel 2002) delle Forze Armate, già sottoposte in modo pressoché assoluto alle volontà del Partito; lotta senza quartiere alla corruzione, attraverso un progressivo inasprimento delle pene che proceda di pari passo con una più efficace educazione morale e patriottica, specie fra le giovani e giovanissime generazioni; piena continuità con il carattere dialettico e scientifico nella linea d’analisi del Partito.
Questo quadro generale nell’indirizzo dello Stato permetterà al vicepresidente Xi Jinping di prendere in mano le redini della presidenza e di dare il via all’ingresso nella quinta generazione in sostanziale continuità con quanto realizzato negli ultimi dieci anni. La sua presenza al vertice “G2” di Pechino con Joe Biden nell’agosto dello scorso anno ha messo in luce già una discreta capacità di farsi rispettare dinnanzi all’importante interlocutore statunitense, al quale ha saputo controbattere invitando Washington ad evitare quelle pretese in tema monetario che arrecherebbero danni in primis all’economia cinese (il braccio di ferro sulla rivalutazione dello yuan, chiesta dalla Casa Bianca) e ad interrompere le interferenze nella Regione Autonoma del Xizang (Tibet) e a Taiwan. Proprio da Taiwan e dall’annosa vicenda legata a questa disputa, sarà possibile valutare con pienezza critica le abilità del futuro presidente e del nuovo corso della politica cinese. È lecito supporre che all’interno della Commissione Militare Centrale, dove Xi occuperà la carica più alta (comandante in capo), cambieranno alcune cose. Secondo le previsioni i generali nati prima del 1944 dovrebbero ritirarsi per motivi di età, e fra questi vi sono il ministro della Difesa in carica Liang Guanglie (classe 1940), il generale Guo Boxiong (classe 1942) ed il generale Xu Caihou (classe 1943). Ad essi potrebbero dunque subentrare il generale Chang Wanquan (classe 1949), l’ammiraglio Wu Shengli (classe 1945) e il generale Xu Qiliang (classe 1950).
La dottrina politica di Xi Jinping, da cui dipenderà necessariamente la stesura del prossimo Libro Bianco della Difesa, sarà determinante e segnerà con esattezza non solo la lettura ufficiale di Pechino del quadro geopolitico internazionale, ma anche l’atteggiamento della Repubblica Popolare Cinese rispetto alle modalità di risoluzione delle sue principali dispute territoriali. È presumibile ipotizzare che per quanto riguarda Taiwan, la dirigenza cinese confermi per l’ennesima volta la proposta di adozione del modello di ricongiungimento sovrano alla Terraferma già seguito nei due casi delle riannessioni di Hong Kong e di Macao, meglio noto col nome “un Paese, due sistemi”. Questa soluzione consentirebbe dunque a Taipei di godere di un’ampia autonomia in campo economico e legislativo, nonostante la riannessione sotto lo Stato della Cina comunista. Tuttavia appare innegabile che, dopo l’approvazione della recente Legge Anti-Secessione da parte di Pechino, il clima tra le due sponde dello Stretto sia tornato rovente e che i continui rifornimenti militari che Washington garantisce a Taiwan stiano peggiorando la situazione. Ogni possibile margine di crescendo militare regionale sulla scia della crisi del 1995-1996, andrà senz’altro sventato. Resta il fatto che Pechino nei prossimi dieci anni dovrà necessariamente risolvere in suo favore questa disputa che prosegue – tra crisi e momentanee fasi di tregua – oramai dal 1950. Lo sciogliersi di questo nodo gordiano storico della politica difensiva cinese consentirebbe alla potenza asiatica di emergere in modo decisivo riconquistando un controllo navale completo sui propri fronti marittimi nazionali, completando quanto di buono stabilito fra il 1999 e il 2002 con la Repubblica Socialista del Vietnam in termini di reciproco riconoscimento e cooperazione sulle acque meridionali, nel quadro della cosiddetta politica delle “16 parole d’oro”.
Solo a quel punto i margini di manovra della strategia globale cinese sarebbero molto più nitidi così come più evidenti risulterebbero anche le ragioni del massiccio dispiegamento navale statunitense nella regione Asia-Pacifico, compresa tra le coste settentrionali dell’Australia e la Penisola russa della Kamchatka. Molto dipenderà anche dal verdetto elettorale che alla fine dell’anno stabilirà il nome del nuovo presidente degli Stati Uniti. Tuttavia, che vinca il repubblicano Romney o che venga riconfermato il democratico Obama, appare chiaro che scatenare un nuovo pesante scenario di containment sul Pacifico sarà l’obiettivo cardine della dottrina nordamericana nel tentativo di salvaguardare un’egemonia sempre più traballante.
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