(ASI) Le prossime settimane diranno se il piano di aiuti da 100 miliardi dell'Unione europea per ricapitalizzare le banche spagnole, è una toppa o una soluzione capace di stabilizzare la situazione. Le istituzioni europee sperano che possa bastare ad evitare il contagio. Il commissario Rhen ha dichiarato che i Paesi dell'eurozona sono pronti ad azioni decise e che il messaggio lanciato ai mercati è chiaro.
Anche il G7 ha fatto sentire la sua voce. I “7 Grandi”, in un comunicato, hanno dichiarato che nell'azione dell'eurogruppo si vede "un progresso verso una più rilevante unione finanziaria e fiscale nell'Unione europea".
Il primo ministro spagnolo Rajoy ha cercato di sottolineare le ricadute positive dell’intervento, minimizzando gli aspetti meno edificanti per la Spagna, di fatto oggi meno autonoma rispetto ai poteri internazionali. "Quello che è successo, ha detto Rajoy, è stata l'apertura di una linea di credito per il nostro sistema finanziario, con l'obiettivo di recuperare la solvibilità del sistema finanziario e avere quindi la possibilità di accesso al credito per le famiglie e per gli imprenditori, in modo da tornare a crescere".
Pare che però, dietro le quinte, il capo del governo iberico si sia lasciato scappare apprezzamenti poco commendevoli nei confronti dell’Italia, del tipo “se sembrano troppi 100 miliardi per la Spagna, cosa si dirà quando ne occorreranno almeno 4-5 volte per l’Italia?”. In realtà, al momento, secondo gli analisti europei, il primo rischio non è che l’onda lunga dei debiti sovrani prenda di mira l’Italia ed il suo debito pubblico, ma che, all’attacco al sistema bancario spagnolo, segua quello alle falle nei conti di Stato di Madrid.
In molti si sono chiesti come sia stato possibile che, in pochi anni, la Spagna sia passata dal “miracolo” economico all’attuale ruolo di anello debole europeo, dopo la Grecia, l’Irlanda ed il Portogallo. Pochi anni fa, prima dell’esplosione della crisi nel 2008, il Paese iberico aveva una crescita maggiore della media della zona euro, un tasso di disoccupazione che, tra il 2000 ed il 2007, si era ridotto del 5% ed un debito pubblico pari al 36% del suo PIL. Ma era un miracolo economico che mascherava profondi squilibri.
Come per molti Paesi dell’Europa meridionale, anche per la Spagna l’entrata nell’euro si è tradotta in una forte diminuzione del costo del credito, che si è tendenzialmente allineato a quello dei partner del vecchio continente. Ma l’afflusso di denaro a buon mercato è stato impiegato quasi esclusivamente nel settore delle costruzioni immobiliari. L’edilizia ha conquistato una parte smisurata nell’economia spagnola, arrivando a rappresentare fino al 12% dell’occupazione rispetto all’8% dei primi anni ’90 ed al 5/6 % della media dei Paesi della zona euro. Nel 2007, si costruivano nel Paese 760.000 alloggi, tre volte più che nel 1995 e tanti quanti ne costruivano Francia, Germania e Italia messe insieme, come ha rivelato una ricerca dell’economista Jesus Castillo, della Banca d’Affari francese Natixis.
Questo sviluppo abnorme, ha creato molti posti di lavoro ed ha attratto anche molti giovani che sono stati indotti a lasciare i loro percorsi di studio per un lavoro facile (perché poco qualificato) e molto remunerativo.
Quando, nel 2008, è scoppiata la crisi, tutto questo settore, divenuto centrale nell’economia spagnola, è stato travolto. Per ora, niente l’ha rimpiazzato. Si stima che il tracollo delle imprese del settore edile abbia provocato da 1,5 a 2 milioni di disoccupati.
Ma c’è anche un’altra faccia della crisi spagnola: il debito pubblico, in gran parte provocato dalle autonomie regionali. A questo proposito, nel novembre scorso, il quotidiano spagnolo El Pais ha svolto un’inchiesta finalizzata a compilare la lista dei progetti più faraonici dell’ultimo decennio. Tra questi, il porto di Valencia, costato 1,8 miliardi di euro, costruito per svolgervi l’edizione 2007 dell’America’s Cup ed oggi desolatamente deserto e inutilizzato. O, per restare a Valencia, la Ciudad de las Artes y las Ciencias, costata 1,3 miliardi, progettata dall’architetto Santiago Calatrava, e oggi ridotta ad ospitare celebrazioni di matrimoni per far quadrare i bilanci, con buona pace delle Arti e delle Scienze. O, ancora, l’aeroporto costruito a Ciudad Real, in Castiglia-Mancia, il più grande del mondo, costato 500 milioni ma, è il caso di dire, mai decollato.
Questi megaprogetti, spesso dettati dalla megalomania dei presidenti delle regioni, sono il simbolo di un sistema di rapporti tra lo stato centrale e le autonomia locali che è costato molto caro alla Spagna. Se nel 2011 il deficit pubblico spagnolo è schizzato all’8,91% del Pil contro il 6% previsto, lo si deve, per almeno i due terzi, alle diciassette comunità autonome in cui si articola il sistema locale del paese. Responsabili delle spese in materia sanitarie e scolastica, poco flessibili, le autonomie locali spagnole hanno visto sgretolarsi le loro entrate, molto legate al settore delle costruzioni.
Il governo di Mariano Rajoy ha così deciso di imporre alle regioni una disciplina di bilancio comparabile a quella che l’Europa richiede ai propri Paesi membri, con tanto di sanzioni e interventi sostituivi del potere centrale in caso di mancato rispetto delle regole. Ma, in un Paese in cui il decentramento è previsto dalla Costituzione, alcune regioni, gelose della loro indipendenza, sono già sul piede di guerra.
Se questo è il quadro economico della Spagna, c’è da chiedersi quale sia stato il ruolo del sistema bancario iberico. Gli istituti finanziari spagnoli sono al tempo stesso autori e vittime della crisi. Di certo, finché la bolla immobiliare non è scoppiata, hanno inondato di crediti imprese e famiglie, soprattutto al fine di sostenere l’acquisto delle case costruite a bizzeffe. Secondo la Banca di Spagna, l’indebitamento di imprese e famiglie raggiunge ormai il 218% del pil. Con la recessione, i fallimenti delle imprese si moltiplicano, la disoccupazione cresce ed i debitori non possono più far fronte ai prestiti avuti. Le banche spagnole hanno così accumulato oltre 184 miliardi d’euro di debiti. Da qui la necessità di rimettere in piedi con le sovvenzioni dell’Unione Europea il settore finanziario spagnolo, indispensabile per finanziare la ripresa dello sviluppo, anche se ciò creerà un’altra ondata di critiche da parte dell’opinione pubblica.
Intanto, però, il deficit spagnolo nel 2012 arriverà al 5,5% del pil, anziché al 4,4 previsto. E se Rajoy ha già annunciato che intende rivedere gli impegni assunti dalla Spagna in materia di deficit, i mercati hanno finora dato segnali di diffidenza e i tassi d’interesse sono saliti fino al 6,5% per prestiti a dieci anni. Ecco perché si aspettano con ansia (forse eccessiva) i possibili effetti positivi del piano dei cento miliardi dell’Unione Europea.
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