(ASI) La notizia di oggi della seconda svalutazione monetaria consecutiva, decisa dalla Banca del Popolo Cinese (banca centrale) nel giro di due giorni, ha portato il ribasso complessivo dello yuan al 3,5%.
Le ripercussioni sui mercati europei sono state pesantemente negative durante la seduta di ieri ed è avvenuto altrettanto oggi, in chiusura di giornata. Secondo molti analisi, è l'inizio, o quanto meno uno dei punti nodali, di una guerra valutaria nemmeno troppo nascosta tra Pechino e Washington, che da anni chiede alla Cina di rivalutare in modo significativo la propria moneta. Già nel 2010, la Repubblica Popolare si era rifiutata di apprezzare oltre certi limiti la sua moneta, adducendo giusitificate ragioni di stabilità interna. Cinque anni più tardi, di fronte alle recenti difficoltà finanziarie registrate nei listini delle borse di Shanghai e Shenzhen (con perdite di oltre il 30% in poco più di un mese dopo una serie impressionante e per certi aspetti "innaturale" di rialzi durata oltre un anno) e stante il calo delle esportazioni nel mese di luglio (-8,3% rispetto allo stesso mese del 2014), la banca centrale cinese, dopo le significative misure di intervento sui mercati azionari, decide di intervenire direttamente sul tasso di cambio.
Il panico per un tracollo finanziario in Cina è ancora sostanzialmente infondato, anzitutto perché il volume complessivo del mercato azionario equivale al 40% del PIL cinese, a differenza di molti Paesi occidentali dove raggiunge o addirittura supera il 100% del PIL nazionale. In secondo luogo, perché la Banca del Popolo è un organismo statale, controllato dal governo, che ha il mandato di stabilire la politica monetaria e di regolamentare tutti gli istituti finanziari della Cina continentale (le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao godono di uno status di marcata autonomia sul piano economico-finanziario). Gestirà, perciò, anche questo problema con gli strumenti politici forniti dal Partito Comunista Cinese, iniettando liquidità se sarà ancora necessario, anche a costo di "manipolare" il mercato. Infine, il fondo sovrano cinese, malgrado la recente politica di alleggerimento del debito estero americano detenuto, resta ancora uno dei più potenti al mondo, grazie anche ad un volume di riserve in valuta estera più che ottuplicato tra il 2004 e il 2015.
L'obiettivo di Pechino, secondo gli esperti, è duplice e ha un carattere sia economico che politico: nel breve termine, rilanciare le esportazioni verso i mercati dell'Asia e dell'Africa, anche alla luce della corposa serie di dazi anti-dumping applicati dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea su diversi prodotti cinesi, ultimo l'acciaio; nel medio-lungo termine, rendere più sicuro e competitivo il renminbi per farne una valuta di riserva mondiale proprio come è stato per molti anni il dollaro USA.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia