Una serata all’insegna della musica pianistica con Hiromi e Jamal
(ASI) Sponsor ufficiale di questo evento dal carattere spiccatamente internazinale è stata la Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugina, che ha confermato un tradizionale e solido contributo nei confronti di UJ. A portare i saluti e i ringraziamenti della Fondazione, in apertura del concerto, è stato infatti il Vice Presidente Dr. De Pretis che si è rivolto alla platea con un sintetico, elegante ed incisivo discorso. Il Dr. De Pretis, “augurando un buon ascolto e ringraziando organizzatori ed estimatori del festival” ha affermato infatti che UJ ed il suo contesto forniscono “una moltepilicità di emozioni e stimoli” e che troveranno anche in futuro un “convinto sostegno”.
Hiromi: la pianista
Si esibisce con Anthony Jackson e Steve Smith alla batteria, è una pianista precoce, influenzata per certi aspetti da Chick Corea e Ahmad Jamal. Nel tempo ha aperto per musicisti importanti come Harbie Hancock e si è esibita ad Orvieto. Esegue un jazz che ha una forte attenzione alla tradizione (nel caso specifico George Gershwin) in cui compaiono come contaminazioni la musica elettronica, le sonorità orientali, forti aperture armoniche, sprazzi di Sakamoto e soltanto echi minimalisti, sostanzialmente un free jazz. Non tralascia di eccedere nel gusto tattile pieno di fioriture pianistiche alla Art Tatum –ma con quest’ultimo il paragone non reggerebbe proprio-, né si scorda di interpretare magnificamente un movimento classico importante (Chiaro di Luna di Beethoven) facendoci ricordare quanto già analogamente ascoltato da tanti altri pianisti jazz famosi tra cui Bollani. Purtroppo la eccessiva rigidità e la spasmodica articolazione delle dite la penalizzano, anche nel suono che può non essere sempre brillante o potente. Infondo è proprio questo che sembra la faccia suonare con un certo sforzo e anche se non tutti l’hanno notato, con un certo ritardo e con occasionali mancanza di suono. Le velocità alla fine le ha comunque fatte ed un certo virtuosismo è comunque emerso, ma soprattutto è effettivamente riuscita a coinvolgere, ad impressionare –forse eccedendo troppo nella spettacolarità- creando forti sensazioni, o meglio ambienti musicali.
Le sensazioni iniziali sono di una freddezza tutta nipponica, appropriata alle meravigliose aperture armoniche e al carattere tonale dei temi e degli introiti (splendidi). A tale proposito, la scelta di eseguire su uno Yamaha, oltre che condivisibile, non è stata di sicuro causale.
I brani presentati, non privi di umorismo musicale (quello stesso che per capirci Lang Lang propone in Chopin), sono costruiti molto bene e chiudono alla maniera di una ring composition, formalmente sono molto apprezzabili e soddisfacenti proprio per il senso di completezza e intelligenza che trasmettono. Il gusto per la melodia è predominante in questa musica così eclettica frutto di tante reminiscenze, di un sostanziale ponderato impasto stilistico e di una fortissima inventiva. Come si accennava poco sopra infatti questa spiccata vena melodica viene sfruttata ed è risultata evidente soprattutto nella interpretazione del movimento beethoveniano che realizzata attraverso accordi originale e non scontati, con sonorità ammalianti, con la continua accortezza della dolcezza si è configurata come una impegnativa prova del tutto riuscita.
Ottimo il dialogo con gli altri strumenti (soprattutto nell’esuberante numero di contrattempi) che hanno saputo fare da sfondo e da contorno al pianista principale senza mai eccedere o sovrastare. In particolare si era capito molto bene che la batteria era eccellente, ancora prima che eccedesse in un assolo spettacolare, ma un po’ funambolico o direi equilibristico. Un vizio anche della pianista, quello di eccedere nello spettacolarismo, cosa che a Lei di sicuro non serve e che la allontana molto dalla abile compostezza di un Corea o di Tatum.
In compenso questa giovane e affermata interrete ha dimostrato grande abilità nel determinare sensazioni tangibili, nel mostrare gusto per il ritmo e nel determinare amabilissimi ambient sonori, come nel caso dell’ultimo brano che si è chiuso con un atteso “fuoco d’artificio”.
Jamal: il maestro
Una leggenda vivente, ottantenne, che ha sempre o quasi suonato in trio, per esempio con il contrabbassista James Cammack e con il batterista di New Orleans Herlin Riley, oltre che con percussionisti come Manolo Bandrea. Sul suo cammino di pianista da formazione, ha incontrato molti nomi tra cui proprio quello di Art Tatum. In questa occasione ha eseguito su uno Steinway.
Nel suo modo di suonare ed in quello del suo gruppo si riconoscono con immediatezza tutta la storia e professionalità del caso. Egli suona senza alcuno sforzo, con una estrema semplicità, con grande “garbo” e compostezza formale. Per dirla alla maniera dei pianisti professionisti ha un tocco dello strumento che gli permette di “produrre veri suoni”, brillanti e scintillanti. Poche note ricchissime di ritmo e significato, essenzialità sonora. È un musicista all’apice della maturità, dotato di un proprio, personale, originale stile. Un pianista che ha un eccellente e simbiotico scambio con gli altri musicisti, nessuno escluso. All’interno del gruppo e loro brani raffinatissima è la sezione ritmica (percussioni), che qui ricopre una funzione portante oltre che essenziale. Questa sezione così sofistica e variopinta si è addentrata nell’etnico per arrivare ad atteggiamenti rumoristici e onomatopeici.
Il pubblico percepisce il caposcuola e molte delle sue doti, ne è affascinato. Il pianismo della semplicità e dello “stile proprio” pervadono. Emergono rare ma eccezionali aperture armoniche dal carattere melodico e tonale, che tradiscono un grande romanticismo, una grande sensibilità e modernità d’animo, ma che purtroppo si disgregano come sogni al destarsi. Una musica dal carattere onirico, addirittura ipnotico ma soprattutto raffinata e coinvolgente.