Spacelandia. Una deriva solida tra le dimensioni. Mostra di pittura di Simone di Stefano 16 maggio – 30 giugno

Spacelandia. Una deriva solida tra le dimensioni. Mostra di pittura di Simone di Stefano 16 maggio – 30 giugno

 

 

Spacelandia. Una deriva solida tra le dimensioni. Mostra di pittura di Simone di Stefano 16 maggio – 30 giugno

Spazio Arte Mandarini, Via Ferriera, 52, Torgiano, (Pg)

Orai di apertura: dal lunedì al sabato 09.00-13.00/16.00-20.00

Contatti Mandarini: tel. 075-5990662 - www.mandarini.com

 

LAB52, Via Alessi, 52, Perugia (Centro storico)

Orari di apertura: dal lunedì alla domenica su prenotazione.

Contatti LAB52/Simone Di Stefano: cell. 328 1994805

e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

Appunti presi vagando per Spacelandia di David Laurenzi (Scrittore e Antropologo Visuale)

Ad ogni essere, mi sembravano dovute diverse altre vite.

Arthur Rimbaud, “Una stagione all’inferno”

 

“Spacelandia” – che qui potete in parte rivivere/visitare/abitare, grazie alle belle foto del vernissage di Marco Andrea Fichera, in grado di restituire tanto la complessa partitura dell’allestimento che la forza cromatica e la densità pittorica delle singole opere – è una mostra di Simone di Stefano, una sua “creazione” e “creatura” che ho visto nascere e svilupparsi lentamente, tra intuizioni e cambi di rotta, negli ultimi due, tre anni (nel corso dei nostri incontri al Lab52, a via Alessi, nel centro di Perugia, il suo antro-navicella-studio dove ci è capitato spesso di confabulare in qualità di soci, complici, “sedicenti” artisti)... L’ho vista nascere e muovere i primi passi, per poi di colpo accelerare e farsi ricerca vorticosa, proliferazione esponenziale, quando i dettagli, i particolari spesso sullo sfondo dei suoi precedenti lavori (segnati ancora dal tratto dominante del disegnatore e del grafico), si sono fatti avanti, ingigantiti – come sotto la lente di un microscopio impazzito – acquistando una forza inedita nella ricerca appassionata del colore, della superficie che tende al volume.

 

Dicevo, “Spacelandia”, che qui potete rivivere e visitare... e percorrere sì, ma senza bussola o carta astrale, dato che il modo migliore per comprenderla è quello di perdercisi, abbandonandosi a una deriva di marca “situazionista”, a un vagare inconscio che permetta di trovare senza cercare.

Qualcosa di affine, di molto affine al procedere pittorico di chi questa mostra l’ha concepita, per poi farsene ingoiare... costruendo con piena consapevolezza e conoscenza tecnica un’astronave scintillante e mirabile in grado di attraversare un’intera galassia, salvo poi perdere la rotta cosmica preventivata e dimenticare il piano e gli scopi del viaggio, scoprendone così lui stesso di nuovi e sorprendenti.

Resta a noi di stabilire se i 46 quadri che compongono “Spacelandia” siano la galassia da esplorare o invece l’astronave costruita per tale scopo. In questo secondo caso, la galassia dovremmo cercarla altrove, magari iniziando da noi stessi.

 

D’altronde farsi coinvolgere, reagire in modo peculiare all’esperienza estetica, al tempo stesso riflettendo su questo coinvolgimento e questa reazione, segnano da sempre il mio rapporto obliquo ma tenace con la pittura in generale e quella contemporanea in particolare.

Un’arte seconda solo alla musica per la sua capacità di mettere in crisi il vecchio modello rigido e unidirezionale di comunicazione – costruito sull’idea di un emittente “attivo” che veicola un messaggio verso un ricevente “passivo” in grado di decifrarlo correttamente o meno, a seconda che sia in possesso o no del giusto codice e che il rumore di fondo, i fattori di disturbo, non siano troppo forti.

Nulla di più lontano e ingannevole, anche se magari rassicurante, dalla reale esperienza comunicativa, estetica e non, in cui sono invece lo scambio, fatto anche di fraintendimenti e discordanze, l’interazione e la collaborazione interpretativa di tutti i soggetti coinvolti, il feed-back e la circolarità delle reazioni, la feconda ambiguità e ricchezza semantica del “messaggio” a segnarne la sostanza più profonda (come ci ricorda l’antropologia “eretica” di Gregory Bateson, con il suo approccio olistico).

 

Un rapporto con la pittura, il mio, che data dall’infanzia e da un padre conoscitore appassionato e collezionista febbrile, in giro tra studi di artisti, mostre, gallerie e musei, spesso con me a trotterellargli a fianco... e continuato anche quando, crescendo, sono stato a mia volta sempre più preso dalle mie, di ossessioni: dal fascino della parola detta e scritta, da quello del cinema (dell’immagine/suono in movimento), senza per questo dimenticare quei primi oggetti di curiosità e attrazione, fatti di tela, legno e colori di cui potevi sentire con forza l’odore penetrante.

 

E a proposito di essere parte in causa, è stato proprio un mio modesto suggerimento a Simone, quello di leggersi “Flatlandia” (uno strambo romanzo fantastico/allegorico del 1882 – ne è autore Edwin A. Abbott, insegnante e teologo – in cui si narra di come in un mondo piatto, a due dimensioni, un quadrato, ligio funzionario statale, incontri una sfera – messia inviato appunto da Spacelandia, il mondo a tre dimensioni, il nostro – e se ne faccia profeta deriso e incompreso presso i suoi concittadini, incapaci di comprendere l’esistenza di altri universi, a tre, quattro, cinque dimensioni) a far saltare fuori dalle sue pieghe la visione di “Spacelandia”, o meglio il nome da darle; coincidenza/ispirazione a posteriori, perché il resto era già là, nel lavoro recente di Simone: un pensiero che era anche un fare, una riflessione che si traduceva nell’operare pittorico, senza un prima raziocinante. Come tutti i pittori veri, infatti, Simone parla e comprende il mondo sulla tela – o, in questo caso, sul legno, dato che quasi tutti i dipinti sono realizzati su questo supporto – solo dopo arrivano le parole a offrirgli altri indizi, a dare un nome a quella che era già una sua deriva percettiva.

 

La mia lettura “aberrante” (che non si finge cioè oggettiva e dis-interessata) dei quadri si presenta perciò come una personale deriva nella deriva (termine situazionista, spesso impiegato da Guy Debord per rendere l’idea di un perdersi straniato negli spazi fisici e mentali, soprattutto urbani, alla ricerca di intuizioni impreviste, in grado di sbanalizzare l’ovvio e rendere penetrante ed eversivo il sapere), pronta a servirsi della cartina “sbagliata” (ad esempio quella di Londra per muoversi dentro Parigi), ma proprio per questo, spero, stimolante per attraversare i singoli quadri e il loro insieme organico.

 

La prima cosa a colpirmi nella “deriva solida” di Simone è la “dialettica” (se mi si perdona l’uso di questo termine hegeliano, forse poco appropriato per un universo pittorico fortunatamente e fortunosamente al di fuori della Storia, lontano dal suo succedersi conflittuale di azioni unidirezionali dominate dal kronos; nel mondo di Spacelandia a serpeggiare è più l’aiòn, il tempo “altro”, sospeso e soggettivo dei greci, l’atto slegato dal rapporto meccanicistico di causa-effetto, per dirla con Carmelo Bene) o, meglio, la tensione che si viene a creare tra i diversi significati del termine “dimensioni”: il punto, la linea, la superficie, il volume e oltre (tempo incluso), le mille dimensioni spazio-temporali, la cui conoscenza secondo Abbott deve indurci alla modestia e alla contemplazione; e poi invece le dimensioni intese come scale di grandezza, che tendono a confondersi: il grande e il piccolo, i paesaggi cosmici extraterrestri e le microparticelle “invisibili” – Spacelandia potrebbe riempire di sé un pianeta intero, o stare in una scatola di fiammiferi, mi ha detto, pensando ad alta voce, Simone. Impossibile dare una scala di grandezza certa ai paesaggi mentali dei dipinti, anche per l’assenza (quasi) totale dell’elemento umano...

 

A questo si ricollega anche il discorso interno alla mostra circa le dimensioni (le misure) dei singoli quadri. C’è infatti una forte affinità di colore/tecnica/universo evocato tra i quadri dei vari formati; con i piccoli (25x35, 50x50 cm) a volte prototipi, a volte evoluzioni o estremizzazioni dei grandi; in linea di massima il tutto si delinea per trittici, con un quadro grande (80x80 cm) in relazione, “risonanza”, con due piccoli.

 

È interessante come il grande e il piccolo ancora una volta si tocchino, interagiscano e confondano, proprio come accade nella ricerca scientifica più stimolante e innovativa di questi ultimi cento anni: penso ai notevoli punti di contatto che ci sono tra l’astrofisica (le sterminate galassie e i buchi neri) e la fisica delle microparticelle (gli infinitesimali quanti e i bosoni), grazie alle rivoluzionarie intuizioni di Einstein, Bohr, Heisenberg, Deutsch, Hawking, ecc. Tutte e due sono e sono state decisive nel minare la vecchia concezione di un mondo fatto di materia e azioni univoche, in favore di una visione in cui è il flusso dell’energia e la reversibilità di processi multipli e interconnessi a dominare.

Marco Mandarini, il titolare dello “Spazio Arte”che ospita la mostra, è rimasto anche lui colpito da questa strana e, insieme, naturale corrispondenza tra le opere di Simone e un nuovo sapere di cui, seppur lentamente, si va acquistando consapevolezza... nonostante le resistenze di un tardo positivismo contrabbandato per scienza, feroce nemico degli incroci illuminanti tra scienze “esatte”, scienze sociali, esperienze artistiche e intuizioni filosofiche collegabili al buddismo e al taoismo.

 

 

A questo proposito mi viene subito da pensare a “Trizont city” (la città dai tre orizzonti), un quadro che racconta perfettamente della “difficoltà” a concepire e “vedere” un solo orizzonte, quello solito cielo/terra. Per Simone ogni spazio è piuttosto una selva fitta di orizzonti, una stratigrafia infinita di sipari e di scene (svelate o solo intraviste).

 

Tornando alla linea sottile che separa l’enorme dal minimo, il macro dal micro nei quadri esposti, mi è subito balenata davanti agli occhi (da cinefilo compulsivo, convinto dell’utilità di raffronti e libere associazioni tra ambiti artistici e discipline spesso separate solo da vecchi steccati accademici) la memorabile scena della tazza di caffè nel film del 1966 “Due o tre cose che so di lei”, di J.L. Godard, quando l’improvviso primo piano del caffè appena mescolato trasforma il vorticare della schiuma in una galassia di stupefacente bellezza e fragilità, persa nel nero assoluto dell’universo circostante.

 

Ma non va dimenticata neppure la forte contrapposizione tra insieme (“Spacelandia” come città-universo fatta di 46 dipinti) e frammento (il singolo quadro, in cui si riflette ogni volta in modo diverso l’intero organismo), una contrapposizione che segna a fondo tutta l’arte contemporanea; basta pensare alle riflessioni a riguardo di Barthes, Adorno, Benjamin.

Del resto il frammento, è bene sottolinearlo, è frutto anch’esso della deriva di chi visitando il mondo (o essendone visitato) ne coglie porzioni, pezzi e lacerti da cui cerca di ricavare un senso, comunque parziale; proprio come il flâneur, il passante che vaga, pieno di una curiosità senza scopo, per “I passages di Parigi”, il grande, ultimo, incompiuto libro di Walter Benjamin.

 

Un'altra tensione fondamentale è quella tra il “denso” e il “buio” dei piccoli quadri (i monotipi da stampa calcografica di “Sotto gli strati” o di “Prospettive improbabili”), quasi buchi neri in cui si contrae e collassa l’universo di “Spacelandia”, e, di contro, i colori e le luci di molti dei quadri grandi, in cui zampilli cromatici e colate di materiali segnano l’avvenuto espandersi di un universo liberatosi nell’esplosione – ormai lontana – di uno dei tanti, ricorrenti big-bang... In piena, istintiva sintonia, come già detto, con le scoperte della fisica quantistica (Planck, Einstein) e dell’astrofisica.

 

Attraverso “Spacelandia” si offrono ai visitatori più derive: si è testimoni di una sperimentazione ricca di scoperte impreviste nell’uso dei materiali e delle tecniche, assortite e varie quanto mai: matita, carboncino, acrilici, colori ad olio, idropittura, con inserti di tela di juta e di cotone, alto rilievi o stucchi policromi, linoleografia, smalto sintetico ed all’acqua, strappo ed incisione , collage, ecc.

E poi ci si confronta con i frammenti sparsi ma significativi di tanta storia della pittura, altro territorio sterminato: con l’impostazione classica, tardo medioevale e poi rinascimentale, alla Piero della Francesca del quadro, con il soggetto al centro del dipinto; con il paesaggio simbolico di Caspar David Friedrich (il suo “Il mare di ghiaccio”, del 1824, mi è subito venuto in mente vedendo il potente quadro di Simone “Una deriva solida tra le dimensioni” ); con le ombre metafisiche di de Chirico; le avanguardie di primo novecento francesi e spagnole; con il discorso materico di Burri... per arrivare alla riflessione contemporanea sul paesaggio di Dottori e di Giuman, con la loro conferma paradossale e inventiva del ruolo principe del paesaggio nella pittura umbra di tutte le epoche.

 

Come rilevavo prima, c’è un unico essere umano, piccolissimo, in tutta la mostra (lo troviamo nel quadro intitolato “L’architetto”)... breve baluginare del soggetto-pittore sul punto di essere attirato, risucchiato, cancellato nell’universo da lui stesso creato, sul punto di perdercisi, al fine di ri-conoscerlo.

Del resto, come afferma serissimo e paradossale Simone stesso, non è veramente lui il creatore di Spacelandia; lui non è che un misero quadrato chiamato a rivelare e rappresentare dimensioni altre che ignora, in questo misteriosamente guidato dal suo maestro, l’architetto appunto – l’equivalente della sfera del libro di Abbott, sorta di messia di cui lui è solo il perplesso profeta.

L’architetto – di cui, prima della fine della mostra, apparirà il tavolo di lavoro, sorta di scultura-istallazione che sottolineerà ancora di più il carattere in progress del progetto – è il suo doppio e alter-ego, il compagno inconscio e sorprendente, in perfetta sintonia con quanto ci ha svelato una volta per tutte il poeta veggente e vagabondo Rimbaud parlando di sé e di ogni artista: Io è un altro – perfetto corollario della citazione all’inizio di queste pagine.

 

Ma passiamo oltre... Un ennesimo frutto della relazione imprevedibile tra le dimensioni, tra il grande e il piccolo, è anche la densità materica di molti dipinti di “Spacelandia”... Mi richiama alla memoria il fascino per i dettagli ingigantiti di oggetti e superfici – fino a rivelare texture, rilievi e trame dalla forza ipnotica e allucinata, quasi micro-universi a sé stanti – che spesso subisce lo sguardo di un cineasta destabilizzante come David Lynch, che per essi rallenta e dilata il ritmo e il senso immediatamente narrativo del suo cinema, per aprirlo ad “altro” (si vedano soprattutto i suoi primi corti e poi “Eraserhead”, ma pure i più noti “Velluto blu”, “Twin Peaks” e “Mulholland Drive”)...

 

Nel concludere qui questa mia deriva al quadrato (si può riderne, l’ironia è voluta), che come tutte le derive è destinata a finire senza motivo né preavviso, mi preme, a proposito dell’allestimento della mostra, richiamarne alcuni punti di forza e interesse.

Sono stati il cut-up (di W. Burroughs) ma anche le libere associazioni e i cadaveri squisiti (dei surrealisti) a guidare Simone e Fabrizio Bellini (suo prezioso complice, qui e nella cura della veste grafica): la disposizione dei quadri segue infatti assonanze e richiami non direttamente legati alle dimensioni delle opere o al tono dei colori, ragion per cui quadri ovviamente affini e comunicanti vengono dispersi distanti l’uno dall’altro, per favorire prossimità e relazioni a prima vista impensabili... La stessa fiducia nell’imprevisto, nella capacità di captare le caratteristiche del luogo per arricchire intuitivamente il progetto dell’allestimento si ritrova poi anche nel contrasto (abilmente sfruttato) tra il percorso sinuoso, le pareti curve dello spazio espositivo da una parte, e i soggetti dei quadri, con le loro figure tutte spigoli, angoli e linee rette dall’altra. Come mi ha fatto notare tra una fotografia e l’altra Marco Fichera: non sarebbe stata la stessa cosa se questi dipinti fossero stati appesi in una stanza rettangolare o comunque squadrata. Laddove invece, tra le ondate delle pareti e la cadenza regolare dei dipinti si stabilisce una perfetta discrepanza, che aumenta il fascino ipnotico dell’esposizione.

 

Il tutto in un rapporto costante tra “speculazione” pittorica e sapere artigianale attento ai dettagli concreti, come rivela la scelta delle cornici bianche – realizzate insieme al restauratore e falegname Luigi Leoni – che accompagnano, eleganti ed essenziali, i quadri nel loro incontro con il bianco “alieno” delle pareti.

Non me ne stupisco, ben sapendo come Simone sia in grado di dipingere un quadro meraviglioso, ad esempio “Migrante” e però, nello stesso tempo, costruire una perfetta teca di legno per spedirlo in Alaska, o magari inventarsi un faretto ad hoc per illuminarlo in un certo modo. Non me ne stupisco ma rimango interdetto, viste le gocce di sudore che mi imperlano la fronte ogni volta che in una mano stringo un martello e nell’altra un chiodo.

Del resto così è, quello tra me e Simone è proprio un dialogo tra sordi, tra improbabili soci e compagni di viaggio in ambiti sempre più vari e impalpabili (prima corsi e laboratori di cinema, poi una folle rivista/tazebao che si chiama “Flusso”, quindi il tutto e il niente di mille progetti, segnati, al di là degli “altisonanti” titoli di studio che ognuno può esibire, da un anti-accademismo tenace e scellerato); un dialogo bizzarro in cui ognuno lancia all’altro spunti da fraintendere e reinterpretare, io alle prese con l’universo delle parole, lui con quello della pittura, e tra questi due il cinema quale fragile intermediario, in una serie di slittamenti per cui è l’imprevisto e il malinteso creativo a dominare.

 

Infine, in dissolvenza...

 

Se in “Spacelandia” c’è una sola figura umana, c’è n’è una invece geometrica che ricorre spesso, in posizioni, forme e modi molteplici, ma sempre in evidenza: il cubo. Ricorda con forza il monolito di “2001: Odissea nello spazio”, il film di Stanley Kubrick del 1968; è un segno forte e misterioso che marca l’universo e rimanda ad altro... Forse è al suo interno che sono nascosti i futuri possibili della pittura di Simone (e, magari, la bianca barba dell’architetto).

 

Probabilmente è tardi per dirvelo, ma potevate saltare da uno di questi appunti di deriva all’altro o addirittura tralasciarne un po’, a vostro piacimento... diffidate del progresso lineare!

 

 

Da sinistra David Laurenzi, Simone Di Stefano, Marco Mandarini)

Migrante” dettaglio

 

 

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