(ASI) Kabul- Oltre 15 anni di missione internazionale non sono bastati. La spirale della violenza in Afghanistan sembra non avere fine. Almeno 400mila richieste d’asilo in Europa sono un numero che dice molto, stando a quanto riportano i dati del «Joint Way Forward», un accordo fra Afghanistan e Ue in tema di immigrazione. Che poi lo scorso ottobre la stessa Croce Rossa Internazionale, solitamente attiva nei Paesi in conflitto, si sia quasi completamente ritirata, resta uno degli elementi più preoccupanti. Un Paese in un vicolo cieco, ora preda di Talebani e militanti dello Stato Islamico, in un’escalation di violenze sempre più sanguinose.
Bastano gli ultimi giorni per capire quanto la sicurezza del Paese sia minacciata: il 20 gennaio l’attacco all’Hotel Intercontinental di Kabul, rivendicato dai Talebani, ha provocato 23 morti. Il 24 gennaio l’Isis ha rivendicato l’attentato di Jalalabad nella sede Ong di Save The Children, 4 vittime fra gli operatori umanitari. Il 27 gennaio, i Talebani hanno risposto al Califfato con un’ambulanza bomba scagliata nella folla, in pieno centro a Kabul. Un’esplosione che ha lasciato sulla strada senza vita 95 civili. Il giorno dopo l’accademia militare della capitale ha perso 11 soldati per un nuovo attacco dell’Isis.
Dalle campagne alle città, dalle periferie al cuore del Paese. L’Afghanistan è sempre più vittima del terrorismo, dove il governo di unità nazionale eletto nel 2014 sembra aver perso il controllo del territorio. L’allora segretario di Stato Americano John Kerry volle Ashraf Ghani presidente e Abdullah Abdullah come suo primo ministro, ma entrambi sembrano ora incapaci di far fronte all’emergenza nazionale. Nel 2017, gli operatori umanitari uccisi sono 17, 32 quelli feriti, 47 i sequestrati. Dati che stanno portando le Ong ad abbandonare un Paese che degenera velocemente nell’anarchia. Il 40% del territorio è ora in mano a gruppi non statuali, nonostante Kabul possa ancora giovare di un ingente impegno finanziario da parte della comunità internazionale, soldi che sono spesso oggetto della corruzione dei dipendenti pubblici rimasti al proprio posto.
L’Afghanistan resta così al centro del Jihad globale, ora caratterizzato da lotte fratricide fra gli integralisti stessi, che sfogano le proprie prove di forza su una cittadinanza impotente e rassegnata alla violenza del terrorismo. Ma alla guerra senza fine, nell’indifferenza di tutti gli altri attori internazionali, da agosto Donald Trump ha iniziato a lavorare sul dossier Afghano, assistito dal consigliere per la sicurezza nazionale McMaster e dal segretario della Difesa Jim Mattis, due uomini che hanno combattuto per anni in quei territori e che hanno sconsigliato al presidente di ritirare le truppe dal Paese, rimarcando gli errori compiuti da Barack Obama. Per loro, far tornare i militari in patria significherebbe vanificare tutti gli sforzi compiuti dal 2001 a oggi. Come risposta, Trump ha promesso il dispiegamento di quasi 4mila uomini, a cui si aggiungono i 7mila già presenti. Questo nonostante il dialogo con i Talebani e ogni mossa militare siano ormai vani tentativi di porre fine alla crisi del Paese, come si è visto da tanti anni a questa parte. La ricostruzione e l’operazione di nation-building dovrebbe avere delle relazioni solide con la società civile afghana, ma di questa gli attentati rivali di Talebani e Califfato Islamico già hanno fatto terra bruciata.
Lorenzo Nicolao – Agenzia Stampa Italia