(ASI) La sentenza che condanna le tre esponenti del gruppo musicale Pussy Riot, le quali hanno inscenato uno spettacolo blasfemo nella Cattedrale di Cristo Salvatore, a Mosca, è arrivata. Due anni di reclusione, con pena che decorre dal momento dell’arresto, per “azioni di teppismo intraprese per odio religioso”. Il tribunale russo ha riconosciuto le attenuanti, così ammorbidendo la richiesta del pm di tre anni di carcere. Respinto il tentativo della difesa di trasformare il vilipendio alla religione in mero gesto politico, giacché le tre giovani - spiega il giudice Marina Syrova, che da settimane vive sotto scorta a seguito delle minacce ricevute da anonimi sostenitori delle Pussy Riot - avrebbero “compreso la natura offensiva (verso i cristiani, ndr) delle loro azioni”. Si chiude qui, in attesa del ricorso che dovrà essere presentato entro dieci giorni, una vicenda di insignificante peso rispetto ai problemi del mondo, trasformata tuttavia in un caso dalla stampa internazionale.
La logica che ha fornito a queste tre imputate il proscenio mediatico suggerirebbe un’idea. Ovvero, che siamo di fronte a un esempio di quella dinamica che gli esperti di relazioni internazionali chiamano con il nome di “soft power”, cioè la capacità di una potenza di esercitare il proprio dominio mediante la persuasione culturale piuttosto che le minacce. La Russia di Putin - scriverlo è diventato poco originale - sta subendo da diverso tempo attacchi subdoli da parte occidentale (le ingenti somme di dollari americani che piovono sui gruppi d’opposizione al governo russo ne sono testimonianza). La colpa di Mosca è quella di rappresentare la base su cui poggia l’unico vero asse globale di resistenza a un mondo dominato da una sola superpotenza, a stelle e strisce. Una base che, grazie alla granitica e proficua convergenza tra Cremlino e Patriarcato russo-ortodosso, costituisce una diga posta innanzi alle tracimazioni culturali causate dal relativismo diffuso. La Russia preoccupa, dunque, anche e soprattutto perché, fin quando lei continuerà a sostenere la religione cristiana, i progetti di appiattire l’intero pianeta come un orizzonte popolato da individui privi d’identità, da mansueti automi facili prede del consumismo, resteranno una chimera. Alla luce di queste considerazioni, risulta fin troppo facile intravedere dietro le blasfeme esibizioni delle Pussy Riot un attacco coordinato alla Russia, al cristianesimo, alla tradizione. C’è qualcuno che ha strumentalizzato, forse addirittura manovrato, le azioni di queste esagitate pedine occidentali che si credono ribelli. Un qualcuno che ha tratto comunque giovamento dalla vicenda, al di là della sentenza di condanna e del conseguente piagnisteo ostentato da una pletora occidentale composta da media e membri dello “star system”.
Da questa vicenda emergono tre elementi - la sproporzionata attenzione mediatica concessa al processo, l’ingerenza nei confronti della magistratura russa, il condizionamento nei confronti di una assopita opinione pubblica occidentale - che, uniti, rischiano di creare un pericoloso precedente. Rischiano di convincere le masse che l'insulto blasfemo, la bestemmia, finanche la vessazione nei confronti dei religiosi siano pratiche da ascrivere nell'involabile albo dei "diritti" dell’individuo.
Diritti che può calpestare solo uno Stato come quello russo; dispotico, violento, retrogrado, ma presto destinato a cadere sotto i colpi provvidenziali del "politicamente corretto" militante, un vasto e plurale schieramento che alterna con disinvoltura ricorso alle armi e “soft power”. Diritti che la vicina Ucraina ha già iniziato a concedere ai propri cittadini. In solidarietà alle Pussy Riot, a Kiev, alcune esponenti dell’organizzazione femminista Femen hanno tagliato con una motosega e buttato giù un’imponente croce di legno eretta in memoria delle vittime della repressione stalinista. Il tutto, di fronte a una frotta di giornalisti avidi di “scoop” e nell’indifferenza delle forze di polizia. Come non comprendere, del resto, l’incuranza delle autorità ucraine rispetto a questo scempio avvenuto nel cuore della propria capitale; l'ipotesi di dover subire l'ondata di violenti attacchi occidentali che nelle ultime settimane ha investito il Cremlino non ha permesso di scegliere altrimenti al più debole governo di Kiev, già ampiamente provato dalle nocive accuse per il maltrattamento dei cani randagi e, soprattutto, per la pur dura detenzione della corrotta Yulia Tymoshenko.
Chi considera le azioni blasfeme un’offesa, una micidiale deriva verso il nichilismo, deve auspicare che la Russia non ceda ai ricatti e alle aggressioni, mantenendo saldo il proprio ruolo geopolitico. E’ opportuno, altresì, prepararsi al peggio; in futuro queste scene esecrande saranno sempre più comuni nel mondo e sempre meno sanzionate da autorità rese impotenti da una “soft power” capillare e molto estesa. Tuttavia, non c’è nulla di cui preoccuparsi, le parole del Signore non lasciano spazio a dubbi. “Non praevalebunt”.
Federico Cenci – Agenzia Stampa Italia