Quando la lotta alla ‘ndrangheta sconfina nell’arbitrio

ndrangheta(ASI) Sono altamente lodevoli, e certamente meritevoli di apprezzamento, gli sforzi che lo Stato sta facendo per combattere la ‘ndrangheta, che con la mafia e la camorra, è una delle piaghe dolorose del nostro Paese. Molti i sequestri e le confische dei beni che provengono da attività illecite.                                               Tutto bene fino a quando non si esagera e, senza un limite, si corre il rischio di sconfinare nell’arbitrio. Sotto i riflettori, spesso, è stata posta la provincia di Vibo Valentia, ritenuta dagli inquirenti, una delle zone più critiche della Calabria.

L’amministrazione comunale di Tropea è stata sciolta per infiltrazioni della ‘ndrangheta lo scorso anno di questi tempi, proprio alla vigilia di ferragosto, tra lo stupore, lo sconcerto e l’imbarazzo di migliaia di turisti che d’estate affollano la bellissima cittadina, perla della costa degli Dei. A giugno scorso, però, il Tar del Lazio, accogliendo il ricorso del sindaco Giuseppe Rodolico e di due assessori ha annullato il Dpr poiché, secondo quanto hanno esposto i ricorrenti, mancavano “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata”. Ma a pochi chilometri di distanza, sempre in provincia di Vibo, che comprende in totale 50 comuni, lo scioglimento per infiltrazioni mafiose, è già successo ad altri 12 amministrazioni: Nicotera (3 volte), Ricadi, Limbadi, Nardodipace, Briatico, Soriano, San Calogero, Parghelia, San Gregorio d’Ippona, Fabrizia, Mongiana, Mileto. Allora è il caso di domandarsi se ad amministrare i comuni, invece di fare le elezioni, non sia meglio lasciare per sempre i commissari nominati dalla prefettura. I consigli comunali sono fatalmente destinati ad essere sciolti perché, prima o poi, saranno “scoperte” parentele, amicizie, frequentazioni con qualche componente di famiglie considerate mafiose e lo scioglimento diventerà inevitabile. Ma come sia possibile, in paesi piccoli come quelli sopra citati, che non ci siano parentele, amicizie e frequentazioni con componenti delle famiglie di ‘ndrangheta? Quasi impossibile. Come è impossibile non andare ai matrimoni o non partecipare ai funerali. Ma non è per paura. E’ molto più semplicemente per il fatto che si appartiene ad una comunità, dove conta molto di più l’amicizia che il certificato dei carichi pendenti. E non potrebbe essere diversamente. Comunque c’è sempre un contesto che andrebbe considerato e valutato. Nessuno, per esempio, ha pensato di ricordare che quattro anni fa, nel giugno del 2013, al sindaco del comune di Nicotera (il cui consiglio comunale qualche mese fa è stato sciolto, per la terza volta, per infiltrazioni della ‘ndrangheta) Franco Pagano, gli era stata devastata la cucina della casa con 30 proiettili di Kalascintov. Succede così che oltre a sciogliere i consigli comunali si fanno chiudere gli esercizi commerciali. Gli ultimi provvedimenti in itinere riguardano due bar di Limbadi, dove lavorano cinque persone tutte incensurate e dove non è mai successo nulla che potesse riguardare l’ordine pubblico, ma secondo il prefetto, che si è avvalso dei rapporti degli organi di polizia, ci sono motivi di ordine pubblico perché sono frequentati da “soggetti censiti penalmente o gravati da pregiudizi penali”. Tutti perderanno il lavoro (oltre ai capitali investiti, naturalmente) se il provvedimento del prefetto di Vibo Valentia che sarà impugnato davanti al Tar, non dovesse essere accolto. Che cosa può e deve fare un barista quando si presenta un mafioso? Ammesso che lo sappia riconoscere, che fa? Gli chiede, prima di servirlo, il certificato antimafia? E in mancanza, si deve rifiutare di servirgli il caffè? Se ci sono persone libere vuol dire che lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, ritiene che possano stare libere e quindi possano fare tutto quello che fanno le persona libere, compreso quello di andare in un locale pubblico e bere una birra. Ma se questo è un problema di ordine pubblico, come sostengono gli inquirenti, ci devono pensare le forze dell’ordine, la magistratura, il ministro degli Interni, per la parte delle loro rispettive competenze, che c’entrano i consiglieri comunali? Che possono fare i baristi? Si tratta, come si vede, di leggi e decisioni discutibili caratterizzate peraltro da ampia discrezionalità, normative oltre che inutili, dannose, uno sconfinamento, mi pare, nell’arbitrio. Così si creano, invece, enormi disagi a tutti, soprattutto a quelli che mafiosi non sono. Esattamente l’opposto di quello che si vorrebbe ottenere. La chiusura dei bar per le frequentazioni di soggetti della ‘ndrangheta, inoltre, mi pare sia in palese e macroscopico contrasto con il sostegno che si dovrebbe dare ai condannati per agevolare il loro inserimento nella vita sociale. Principio sul quale più volte si è espressa anche la Corte Costituzionale. Semmai i sindaci, i baristi, i commercianti, gli imprenditori sono vittime dell’inefficienza e della incapacità dello Stato che non è in grado, al di là dei successi che pure ci sono, di arginare efficacemente il fenomeno mafioso che, come si vede dalle tante inchieste, è diffuso e ormai radicato in tutto il Paese, non solo al Sud.

“La responsabilità penale è personale”, lo dice l’art. 27 della Costituzione e hanno ritenuto opportuno ricordarlo a tutti, in questi ultimi tempi, l’ex presidente del Consiglio dei ministri e attuale segretario nazionale del Pd, Matteo Renzi ed il ministro Maria Elena Boschi quando i loro familiari sono stati coinvolti in inchieste della magistratura. In Calabria e in Sicilia non è così: basta essere parente, ma spesso basta la semplice conoscenza di un mafioso, per essere considerati a tutti gli effetti mafiosi.

Più di una volta è stato scoperto, e anche condannato, qualche parlamentare per essere un fiancheggiatore o addirittura un affiliato a qualche organizzazione criminale. E’ emblematica, a questo proposito, la dichiarazione fatta dalla senatrice 5 Stelle, Paola Taverna (riportata, virgolettata, dal Corriere della Sera del 26 settembre 2016, a pag.10 e mai smentita) “Vengo da un quartiere difficile ma in Senato ho conosciuto i mafiosi”. Eppure nessuno - giustamente - ha chiesto lo scioglimento per mafia del Senato. Ma una dichiarazione del genere, invece, sarebbe stata più che sufficiente per sciogliere immediatamente qualsiasi consiglio comunale o chiudere qualunque esercizio pubblico specialmente se della provincia di Vibo Valentia.

Fortunato Vinci – Agenzia Stampa Italia

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