Processi a Gesù di Giuliano Mignini

processi Gesù(ASI) A genzia Stampa Italia vi propone un'approfondita analisi inerente ai processi che Gesù ha avuto e che ne hanno determinato la crocifissione. L'autore di questa inieressante ricostruzione storico-legale è il magistrato cattolico, Giuliano Mignini, autorevole esperto di questioni giuridiche.

Processi a Gesù

Introduzione

La vicenda giudiziaria che riguarda il personaggio storico di Gesù Cristo è importantissima per tutti. Basta dire che si tratta del personaggio su cui si commisura il tempo e su cui si fonda la civiltà occidentale.

Non è questa la sede per affrontare il tema della storicità di Gesù, affermata non solo dai cristiani, ma anche da storici non cristiani, quelli che possono essere considerati più imparziali, come Flavio Giuseppe nelle Antichità giudaiche e Publio Cornelio Tacito negli Annales. Per una ricerca approfondita sull’argomento e relativa alle testimonianze non cristiane, si veda “La storicità di Gesù nei documenti non cristiani” di Pier Luigi Guiducci (1).

IL CONTESTO STORICO E RELIGIOSO

La Palestina, ai tempi dei processi di Gesù, aveva subito vicende abbastanza complesse: mentre la Galilea e la Perea erano governate da Erode Antipa, Giudea, Samaria e Idumea appartenevano alla Prefettura romana di Giudea, che dipendeva dalla Provincia di Siria.

Prefetto della Giudea era, al tempo dei processi, Ponzio Pilato sul quale occorre soffermarsi.

Il suo predecessore era stato Valerio Grato, quello colpito dalla tegola, inavvertitamente smossa da Ben Hur, nel noto racconto e film omonimo e che è all’origine della tragedia che colpisce il principe ebreo e la sua famiglia. Valerio Grato depose il Sommo Sacerdote Anna e lo sostituì con Giuseppe, detto Caifa.

 Pilato fu prefetto di Giudea dal 26 al 36 d.C.

Il  suo carattere era “scontroso e ostinato”(2). A questo occorre aggiungere un caratteristico disprezzo per i Giudei. Egli coglieva volentieri l’occasione per stuzzicarli, contraddirli e offenderli.

Ma allora, come mai tanta arrendevolezza fu mostrata da Pilato, durante il processo a Gesù? E’ per spiegare questo che occorre tener conto di alcune vicende che caratterizzarono la carriera del funzionario.

Occorre premettere che Pilato ha iniziato il suo incarico circa quattro anni prima che Gesù iniziasse il suo ministero pubblico ed ha continuato a dirigere la Prefettura per circa tre anni dopo la morte di Gesù e un anno dopo la morte, per lapidazione, del protomartire S. Stefano, ad opera del Sinedrio. E’ evidente che il funzionario doveva conoscere, almeno di fama, il Cristo nel momento in cui se lo è trovato di fronte come imputato.

La famiglia di Pilato era di origine sannitica e il “cognomen” “Pilatum” lo indica come l’uomo del giavellotto. Era un militare abile nel maneggio delle armi ma, come spesso accade, poco esperto nelle questioni di governo.
Purtroppo, ciò gli rese difficoltosa la sua missione nella Giudea. Come accadeva, peraltro, a tutti i romani, non capiva la mentalità ebraica e non riusciva a nascondere un’istintivaantipatia verso quel popolo. E non solo non li capiva, ma non aveva cercato neppure di far nulla per entrare in contatto con i suoi “sudditi” o amministrati.
Tuttavia tre fatti del governo di Pilato in Giudea, nonostante la sua ostilità per i Giudei, sono capitali per capire il suo atteggiamento, prudente e remissivo, almeno all’apparenza,  durante il processo a Gesù.

Il primo fatto: poco dopo il suo arrivo in Palestina, nel 26, egli ordinò ai soldati romani che dovevano recarsi da Cesarea Marittima a Gerusalemme, di introdurre nella città santa gli stendardi romani con le immagini dell’Imperatore, ritenute idolatriche dai Giudei. Egli ordinò che i soldati entrassero di notte, per evitare uno scontro immediato, ma di spiegare le insegne facendo trovare il mattino seguente i gerosolimitani davanti al fatto compiuto. Era una sfida aperta alla Giudea, la quale aveva ottenuto da Cesare il privilegio di non vedere esposte le immagini dell’esercito romano, che rappresentavano l’Imperatore come una divinità. Roma si dimostrava sempre accomodante nei confronti dei costumi religiosi dei suoi sudditi purché non ledessero le prerogative dell’Impero. In questo primo caso, Pilato aveva dovuto cedere davanti ai Giudei, che, per cinque giorni e cinque notti, avevano implorato nel suo Pretorio in Cesarea la rimozione dei vessilli romani, dichiarandosi pronti a morire piuttosto che subire un simile affronto. (3)

Il secondo fatto: poco tempo dopo, ci fu la questione dell’acquedotto per portare l’acqua da Cesarea a Gerusalemme. Pilato destinò alcuni fondi del tesoro del Tempio a questa costruzione. Questo impiego del denaro sacro per usi profani provocò un forte tumulto da parte dei Giudei. Allora “Pilato fece sparpagliare tra i dimostranti molti suoi soldati, travestiti da Giudei; al momento stabilito essi estrassero i randelli che tenevano nascosti, e si dettero a malmenare la folla, lasciando sul terreno parecchi morti e feriti”. (4)

Il terzo fatto è di capitale importanza per la comprensione dell’andamento del processo di Gesù; esso avvenne qualche anno dopo: Pilato aveva fatto appendere nel palazzo di Erode in Gerusalemme gli scudi d’oro dedicati a Tiberio, recanti il nome dell’Imperatore e muniti d’iscrizioni e di simboli che potevano essere ritenuti idolatrici (5). Questa volta una delegazione di Giudei, della quale facevano parte anche i 4 figli di Erode, fu inviata a Pilato, ma essa non ottenne la sperata rimozione degli scudi romani; allora i Giudei si rivolsero a Tiberio in persona, che dettel’ordine di rimuovere gli scudi da Gerusalemme e di trasportarli a Cesarea nel Tempio d’Augusto.

Quindi, anche in questo caso, Pilato dovette cedere, ma, quel che è peggio, davanti a Tiberio, al quale i Giudei si erano rivolti. I Giudei, quindi, avevano uncerto influsso sull’Imperatore ed è per questo che si mostrarono così indisponenti con Pilato durante il processo a Gesù.

Pilatosi trovava, quindi, privo davanti al Sinedrio di quell’autorità di cui da buon soldato romano possedeva il senso e che aveva cercato di imporre anche alla Giudea, andando oltre i desideri di Tiberio dal quale era stato sconfessato. Il Sinedrio, quindi, non aveva più paura di Pilato e si sentiva rafforzato da Tiberio stesso. Pilato detestava il Sinedrio, ma non aveva più l’appoggio del suo Imperatore. Questo stato di animo è fondamentale per capire l’atteggiamento del Procuratore romano durante il processo contro Gesù e quello del Sinedrio, che mediante Tiberio aveva in mano Pilato.

Non comprendere questi risvolti psicologici e appiattire il processo a Gesù come espressione di “crudeltà” romana, significa non avere compreso nulla dei processi e dell’atteggiamento sostanzialmente equanime dei romani, a cui non interessavano per nulla le dispute religiose ebraiche ma semmai l’ordine pubblico che non era certo turbato dalla predicazione pacifica e del tutto spirituale di quello che noi cattolici chiamiamo, con orgoglio, Nostro Signore.

Prima di affrontare il nucleo centrale, cioè le ragioni del processo giudaico a Gesù, da cui l’obbligo romano di exequatur , sorta di processo di delibazione con cui l’Autorità romana, senza poter entrare nel merito del processo,dovevaaccertarne solo la regolarità formale e, quindi, recepirlo, dobbiamo esaminare, sia pure con estrema sintesi, un altro aspetto cruciale del problema. Di quali forze poteva disporre Pilato nella Prefetturada lui retta? 

Le forze militari romane.

La Palestina era una “Prefettura”, dipendente dal Legato di Siria, cioè dal governatore della Provincia che la incorporava. Trattandosi di un territorio abitato da una popolazione indomita e portata a continue sollevazioni, sempre per motivazioni religiose che derivavano dalla convinzione degli ebrei di essere il “popolo eletto” da Dio, vi erano fortissimi problemi di ordine pubblico che costringevano i romani ad acquartierare in quel territorio forze di una certa consistenza, soprattutto nei punti focali della Palestina, che erano Gerusalemme, capitale religiosa e Cesarea Marittima, residenza del Prefetto romano e capitale politica.

Gli “Atti degli Apostoli” (cap. 10, 1) citano un centurione della coorte Italica a Cesarea narrando che «…1vi era a Cesarea un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte detta Italica. 2Era religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia;. faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. »

Il centurione era, in pratica, un ufficiale corrispondente all’attuale capitano comandante di compagnia (o tenente rispetto a un plotone) che, all’epoca,comandava la centuria, l’unità di base, composta in genere da cento uomini che, raggruppata a un’altra, formava il manipolo. Il militare combatteva in prima linea e molti centurioni morivano in battaglia. Dunque, c’è Cornelio, centurione della coorte italica (non c’è notizia sulla sua numerazione), per sottolineare così la sua origine estranea al giudaismo.

Come indica il nome, questa coorte era probabilmente composta di volontari arruolati in Italia, che erano cittadini romani per nascita o in quanto liberti.

L’unico riferimento biblico noto precisa che Cornelio era “ufficiale dell’esercito della coorte chiamata italica”. (At 10:1) Ma il riferimento non dice che questa coorte italica fosse di stanza a Cesarea. Dice solo che Cornelio, uno degli ufficiali, abitava a Cesarea.( At 10:1, 2, 22, 24.)

A Cesarea, lontana da Gerusalemme attorno ai  200 km., dovevano esserci un’ala di cavalleria (I Gemina Sebastenorum) e cinque coorti di fanteria, per un totale approssimativo di 2.500/3.000 uomini (5).

L’altro polo “militare” era Gerusalemme e, in particolare, la Fortezza Antonia, sede della locale guarnigione.Inoltre poteva esserci anche un distaccamento di cavalleria (120 uomini circa). Queste forze oltre a garantire la sicurezza dei governatori e dei procuratori che vi risiedevano temporaneamente, avevano anche funzioni di polizia militare e di controllo dell’ordine pubblico.

Ma la Fortezza doveva essere predisposta per accogliere anche la scorta del funzionario imperiale che da Cesarea (ad esempio) si spostava a Gerusalemme.

Infatti Flavio Giuseppe ci dice che «al suo interno era sempre acquartierata una coorte romana, che nelle feste si schierava in armi sopra ai portici per vigilare sul popolo e impedire qualche sommossa». (6)

Quanto alla legione, si trattava della X LegioFretensis, più distante, in territorio siriano.

La Palestina era “coperta”, quindi, da robusti contingenti, concentrati soprattutto a Cesarea Marittima ma a Gerusalemme, focolaio di una possibile insurrezione generalizzata, specie della setta degli zeloti, vi era normalmente una sola coorte, di circa 500 uomini. Non erano molti.

Quanto alla provenienza etnica dei militari, mentre i centurioni dovevano essere cittadini romani, gli altri erano elementi romani e locali (auxilia), con esclusione dei giudei in senso stretto. Vi erano poi i “Sebasteni”, termine con cui si indicava il nucleo del disciolto esercito di Erode, ma anche quei componenti della XII Legio Fulminata che furono martirizzati per la loro fede cristiana nel 320 d. C. In ogni caso provenivano dalla città di Sebaste in Samaria. Questi componevano l’intero contingente di cavalleria e una coorte. La guardia del Prefetto era formata essenzialmente da romani.

PERCHE’ GLI EBREI RESPINSERO GESÙ  

Non solo lo respinsero, ma, specie nel loro nucleo dirigente, lo avrebbero condannato a morte, ma andiamo per ordine.

“Se darete attentamente ascolto alla mia voce e osserverete il mio Patto sarete fra tutti i popoli il mio possesso particolare perché tutta la terra è mia. Voi sarete per me un popolo di sacerdoti e una nazione santa. Queste sono le parole che dirai ai figli di Israele” (Esodo, 19.5-6).

Si tratta dell’Alleanza sinaitica, che segue quella (universale) di Noè e dell’Arcobaleno, quella abramitica o della circoncisione e che precede l’ultima e definitiva Alleanza, quella nella quale la vittima non è più un animale ma è lo stesso Dio fatto uomo.

E’ pacifico che l’elezione divina del popolo ebraico non fosse causata da meriti dello stesso. Semmai è la scelta divina che causa il merito. Dio è, infatti, la causalità universale.

Sappiamo quanto abbia sofferto questo popolo soprattutto per il terribile, mostruoso genocidio subito ad opera delle autorità del Terzo Reich, negli anni che vanno, più o meno, dall’attacco tedesco all’Unione sovietica il 22 giugno 1941 fino alla fine della guerra e all’arrivo dell’Armata Rossa a cui, oggi si tende a dimenticarlo, va il merito di avere posto fine alla vergogna dei Vernichtungslager, i “campi di sterminio”.

Alle vittime di quell’orrore va il nostro ricordo commosso.

Qui oggi dobbiamo, però, cercare di studiare un diverso fenomeno, di duemila anni fa, con la pacatezza e la razionalità che si deve usare quando si studia il passato.

Si è detto che l’elezione divina non aveva, di fronte a sé, meriti particolari del popolo prescelto. Era un’elezione gratuita, come sarebbe stata per qualunque altro popolo.

E neppure può dirsi che il patrimonio spirituale e la “visione del mondo” degli ebrei fosse più facilmente di altre recepibile dal messaggio evangelico.

Questo è un punto fondamentale.

Intanto, il Messia che gli ebrei aspettavano (e aspettano) ha un solo aspetto in comune con Gesù e cioè la sua discendenza davidica. Per il resto, immaginare personaggi più diversi tra Gesù di Nazareth e i vari “sedicenti” Messia che si sono succeduti, sarebbe decisamente impresa vana.

Furono tutti o quasi dei rivoluzionari: tanto per citarne solo alcuni, vi eraMenachem, rivoluzionario contro Agrippa II, Simon BarKokheba, ribelle e rivoluzionario antiromano, descritto, tra l’altro, come uomo malvagio e violento, condottiero pretendente al trono di Giudea e autoproclamatosi Messia  che guidò la terza guerra giudaica contro i romani.

 Andando avanti nel tempo, compare, tra gli altri, Sabbatai Zevi,famoso rivoluzionario che mirava all'alleanza coi turchi che lo convinsero a convertirsi all'Islam. Probabilmente da lui derivò una corrente cripto giudaica islamica che esiste ancora oggi da cui sarebbe derivato, forse, Kemal Atatùrk (8). Barukhia Russo, preteso successore di Sabbatai oJacob Querido, fondatore dei Donmeh, la comunita' cripto giudea convertita all'Islam.  L’ultimo “Messia”, fu Menachem Mendel Schneerson, Rebbe, fondatore o, comunque, massimo esponente del movimento ChabadLubavitch, morto nel 1994, ma, secondo gli adepti, in realtà, non morto perché sarebbe appunto l’atteso Messia. Il movimento ha un forte radicamento e influenza negli Stati Uniti e, in Europa ed ha un forte rapporto con il movimento (o cammino) “neocatecumenale” (9).

Come si vede dagli esempi, il “Messia” ebraico è, per lo più, un rivoluzionario che ha tentato di sconvolgere gli assetti esistenti e instaurare, con mezzi anche violenti, un’era che sarebbe stata di pace. Soprattutto, si trattava di un personaggio di cui era inimmaginabile un’origine divina perché, per gli ebrei e i loro, più che cugini, fratelli, arabi islamici, perché entrambi figli di Abramo ma con madri diverse, Dio è “Uno ed Unico” ed è inimmaginabile la Trinità.

E qui, veniamo alla seconda caratteristica che, come l’altra religione nata nel mondo semitico, cioè l’Islam, è assolutamente incompatibile con la visione del Dio uno e Trino e, quindi, la visione trinitaria, anche perché la religione ebraica e quella islamica mancano degli strumenti concettuali per comprendere la Trinità e in particolare dell’idea di “persona”(10).

Altro punto: la vita ultraterrena. In “Vita eterna. Centro Studi biblici”, Padre Alberto Maggi OSM, Appunti (11), c’è un quadro del complesso delle credenze ebraiche sul punto, che colpisce: non esiste neppure l’espressione “aldilà” nella lingua ebraica. Esiste il termine “olam” ma che significa “tempo lontanissimo” e la sorte ultraterrena dell’uomo, di tutti gli uomini, buoni e cattivi, è lo sheol, un’enorme caverna sotterranea dove, ridotti a larve od ombre, ci si nutre di polvere. E, tanto per chiarire il quadro, Isaia afferma “I morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno” (Is, 26, 14).

La retribuzione per il bene compiuto e la punizione per il male avvengono, per gli ebrei, su questa terra.

Teorie che,provenendo dal mondo estraneo all’ebraismo, affermavano il concetto di resurrezione, verranno duramente condannate dall’élite sacerdotale sadducea e i farisei l’accetteranno, per i giusti del solo popolo ebraico.

Non si pone neppure l’idea dell’anima che comincia ad affacciarsi solo per l’influsso della filosofia greca e ci vorrà del tempo prima che essa venga accolta dal cristianesimo, quando esso reciderà, via via, i suoi legami con l’ebraismo.

Non stupisce che questa visione partorisca una concezione “legalistica” della religione che è comune anche all’altra religione di ambito semitico, la islamica, ed una idea della purezza legata a pratiche esteriori e addirittura alimentari. A questo va aggiunto, il fondamentale carattere “etnico” dell’appartenenza all’ebraismo, nella visione giudaica, appunto e la sua visione esclusivistica.

Era, pertanto, estremamente difficile che il mondo ebraico potesse accettare Gesù, come Messia e non considerarlo invece un grave pericolo alla propria integrità.

Gli ebrei avvertivano che Gesù, pur non rinnegando l’ebraismo e provenendo da quel mondo, se ne distaccava in profondità perché, per lui, si trattava di un mondo che doveva essere perfezionato ed oltrepassato in profondità, in termini che riuscivano a loro incomprensibili. “Non veni solvere, sed adimplere” (Mt 5, 17 – 37).

Fu solo un “piccolo resto” d’Israele, cioè Maria, Maria Maddalena e Maria di Cleofa, cioè le “pie donne” e gli apostoli e poi Giuseppe di Arimatea, a cui è legata la Britannia e il mito del Santo Graal, Nicodemo, come il primo, membro del Sinedrio e il “santo” rabbino Gamaliele, “piccolo resto” che “rappresentò” il popolo dell’Antica Alleanza nella Nuova ed Eterna Alleanza, integrandosi e formando la Chiesa con quelli che si chiamavano i gentili.

Piero Pajardi è stato un grandissimo magistrato e uomo, già presidente della Corte d’Appello di Milano, poi presidente della Sezione lavoro della Corte di Cassazione. E’ scomparso il 30 settembre 1994. E’ l’autore di un’opera magistrale: “ Il processo a Gesù”, Giuffrè Editore, Milano 1994. Era un uomo dall’intelletto finissimo, profondamente cattolico e ben consapevole delle sofferenze che il popolo ebraico aveva dovuto sopportare specie ad opera del regime nazista.

Eppure, di fronte alla sconcertante diffusione di teorie tendenti a riversare la responsabilità dell’uccisione di Gesù sui Romani e a obliterare le responsabilità degli ebrei, in particolare del Sinedrio, si coglie il suo sdegno, perché di sdegno si tratta. Basta leggere le pagine che vanno dalla pag. 31 a p. 45, per rendersi conto dello sconcerto che il Pajardi prova di fronte alla numerosa serie di storici e, comunque, di scrittori che, spesso privi delle più elementari nozioni giuridiche, cercheranno di deformare la vicenda giudiziaria di Gesù, caricando di colpe i romani e tentando fino all’ultimo di attenuare od occultare la responsabilità della gran parte degli ebrei, contro ogni evidenza. E il Pajardi non si limita a contestare questo atteggiamento ingiusto contro le autorità romane ma, criticando la svolta conciliare sull’ebraismo, l’insigne giurista sottolinea il fatto che “altro è un agguato di piazza del quale risponde soltanto l’assassino…altro è un regolare processo…nel quale tutto l’ordinamento si riflette con legittimità formale e conseguendo un risultato che non può non essere attribuito allo Stato rappresentativo storicamente di un popolo” (12).

Quindi, è tra i giudei che bisogna ricercare gli autori, nel senso di causa efficiente, del processo a Gesùe in particolare tra alcune categorie di loro: Sinedrio (salvo sporadiche eccezioni), sadducei, farisei, Sommi sacerdoti, Anziani, Scribi e, in alcune occasioni, gli erodiani e, infine, gli zeloti, i rivoluzionari, anzi i “terroristi” dell'epoca.

Il Sinedrio era il massimo organo legislativo-giudiziario del popolo ebraico, che aveva piena giurisdizione, tra l’altro, nella materia prettamente religiosa: i Romani, infatti, com’era loro costume, lasciavano ai popoli sottomessi (la Palestina era, come detto, una prefettura della provincia romana di Siria dal 6 d. C.) ampia libertà in materia religiosa.

Quindi, tutto il vertice religioso e politico di Israele era, per vari motivi, ostile a Gesù contro il quale le aveva tentate tutte, anche l’eliminazione fisica. Ma lo erano anche i “rivoluzionari”, cioè gli zeloti (o “protozeloti”).  Dopo la resurrezione di Lazzaro, finì col prevalere la soluzione “processuale”: quell’evento fu un fatto traumatico che poneva il vertice ebraico “con le spalle al muro”. O lo riconoscevano come Messia o dovevano eliminarlo.

È il Sommo Sacerdote Caifa, sadduceo, l’uomo che più lucidamente e con maggiore convinzione promuove ed organizza il piano per l’eliminazione di Gesù.

A lui si deve quella terribile frase secondo cui la morte di un uomo (Gesù) sarebbe stata preferibile alla fine di un popolo (Giovanni, 11,47-50).

Teniamo presente che i Sadducei non credevano nella resurrezione dei morti e la resurrezione di Lazzaro era un fatto che andava negato in maniera implacabile, pena, tra l’altro, il crollo di tutta l’impalcatura dottrinale del sacerdozio sadduceo.

UNO SOLO O DUE PROCESSI?

Prima di procedere e riconoscendo, come fa il Pajardi, nell’opera citata sub nota 3 e sul cui pensiero tornerò, che la stragrande maggioranza degli storici non dubita dell’assoluta veridicità della narrazione dei Vangeli (si veda op. cit., pp. 21, 22 e 24 - 25), va affrontato un problema preliminare: che rapporto c’è tra la “fase” ebraica e quella romana della vicenda giudiziaria ?

In altre parole, vi è stato un solo processo, quello romano, con una premessa di tipo religioso, oppure vi sono stati due processi ?

La soluzione più chiara e compatibile con il racconto evangelico è che vi furono due processi, quello “di merito” ebraico e quello “di delibazione”, romano (13).

IL PROCESSO GIUDAICO

C’è un episodio, proprio all’inizio del ministero pubblico di Gesù, che si svolge in Galilea, e precisamente nella sinagoga di Nazareth. E’ Luca che lo descrive con maggior precisione (vds. Lc 4, 14 – 30). E’ un momento della vita di Gesù che ha dell’incredibile e che servirà da paradigma costante di altri episodi di ostilità subiti da Gesù.

Cosa accade nella sinagoga di Nazareth, dove Gesù e la sua famiglia sono conosciutissimi ?

All’inizio Gesù, accolto con considerazione e simpatia dai presenti, lesse un passo del profeta Isaia. Qualcuno osservò che Gesù altri non era che il figlio di Giuseppe, il falegname. E Gesù, dopo aver osservato che nessuno è profeta in patria, ricorda l’episodio della donna pagana originaria di Sidone che, ridotta ormai alla fame insieme al figlio che morirà di inedia, non rifiuta al profeta Elia un pezzo della focaccia e questi guarisce il piccolo. Gesù aggiunge, poi, a questo episodio quello di Naaman, il Siro, un altro pagano, uomo potente, ma affetto da lebbra che viene guarito per l’intervento del profeta Eliseo.

Gesù vuole aprire il cuore dei presenti alla compassione verso chi è estraneo al popolo ebraico, vuol cominciare ad allargare l’orizzonte a tutti gli uomini, ma i presenti, legati alla loro visione etnocentrica, si infuriano e conducono Gesù sul ciglio del monte sul quale era costruita la città per scaraventarlo giù e ucciderlo. Gesù, però, riesce a sfuggire.

E questo è, diciamo così, l’esordio.

Poi sarà un crescendo di contrasti tra Gesù e, soprattutto, il “partito” dei Farisei, l’antenato degli odierni rabbini, ma anche contro la gran parte dei giudei. Durissimo è il giudizio che Gesù pronuncia contro un gruppo di israeliti,che rivendicano la propria discendenza da Abramo. E Gesù: “So che siete discendenti di Abramo. Maintanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. …Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo….Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro” (Giovanni, 8, 37 – 44).

Dapprima, l’ostilità contro Gesù coinvolge una parte della popolazione, poi, soprattutto i farisei e, in minor misura, i sadducei, a cui appartiene l’aristocrazia sacerdotale, poi, attraverso la cerchia esterna dei collaboratori e informatori del Sinedrio, l’avversione a Gesù coinvolge quasi tutto il Sinedrio e, da allora, acquista delle caratteristiche “giudiziarie” e reclama una risposta dell’ordinamento.

Il momento chiave è la resurrezione di Lazzaro. Al fatto avevano assistito “molti dei Giudei che erano venuti da Maria e questi, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui”, così si esprime San Giovanni (14). E’ un miracolo che non si poteva ignorare. Gesù era veramente il Messia tanto atteso. Alcuni di questi si sentono, però, in dovere di riferire ciò che avevano visto ai farisei. Non dicono una bugia. Informano i farisei di ciò che hanno visto, solo questo.

La “catena di comando” si forma immediatamente. Dai farisei ai “capi dei sacerdoti”. Il sinedrio si riunisce.

Quello che dicono lo riporta Giovanni (15) e lo riporto anch’io perché esprime il fine del Sinedrio e la malafede di quasi tutti i suoi componenti “Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione. E il sommo sacerdote Caifa, sadduceo, esclama: “ Voi non capite nulla ! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo e non vada in rovina la nazione intera !...Da quel giorno, dunque, decisero di ucciderlo” (11, 63). 

Affrontando un ambito più strettamente processuale, non possiamo giudicare un ordinamento, totalmente estraneo al nostro, come quello ebraico dei tempi di Gesù, ma due cose balzano agli occhi: Caifa è il capo del Sinedrio, in termini giudiziari, il “presidente” del collegio giudicante. Non avrebbe mai e poi mai potuto anticipare il suo giudizio. Oggi sarebbe stato passibile di immediata ricusazione, anche perché, a quanto sembra, pronunciò la famosa frase su Gesù in pubblico.

Secondo “problema”. Caifa era il “capo” dei “giudici”, ma il pm non c’era. A procedere e a “inventare” il capo di imputazione era lo stesso “presidente” del collegio giudicante. Principio “inquisitorio” puro, in contrasto col “ne procedatjudex ex officio”.Altra anomalia, rispetto alla procedura contemporanea, è l’assenza del difensore.

Il motivo dell’arresto è, per gli ebrei, prettamente religioso e riguarda un complesso di elementi: la bestemmia, la profanazione del sabato, la divinazione, la magia e la pseudo profezia.      

Gli sbirri che procedono all’arresto erano una sezione della Guardia del Tempio. Solo ebrei, poco più di una decina, quindi, procedono all’arresto di Gesù, eseguendo il “mandato di cattura” emesso dal Sinedrio. Non vi è traccia di soldati romani anche se qualcuno ha cercato di ipotizzarla contro ogni evidenza.

All’arresto partecipa significativamente l’apostolo Giuda Iscariota, verosimilmente uno zelota, che, per trenta monete d’argento, fattesi consegnare dai sommi sacerdoti, fa sì che Gesù venga consegnato alle guardie del Tempio (Mt 26: 14-16). Poi l’uomo si suiciderà.

 L’arresto è solo in apparenza formalmente legale e verosimilmente fu data ad esso forma scritta da uno degli “ufficiali” di questa sezione di “polizia giudiziaria” delle Guardie del Tempio e infatti Gesù, che ha sempre rispettato la legalità, non li accusa di abuso ma ironizza sul fatto che sia stato trattato come un pericoloso malfattore. Eppure, l’arresto era pressoché immotivato e non sorretto da prove tanto che i Vangeli dicono che il Sinedrio “cercava” prove contro Gesù per farlo morire.

In ogni caso, il “reato” aveva un carattere esclusivamente religioso, di competenza dell’Autorità ebraica.

        

DAVANTI AD ANNA.

La “fase” che si svolge davanti ad Anna (di cui parla Giovanni) è, verosimilmente, una fase informale con la quale Anna cercò di strappare all’arrestato una confessione e lo accusò di appartenere ad una “setta segreta”, affermazione subito respinta da Gesù che ricorda l’assoluta pubblicità e trasparenza della sua predicazione.  

 Di questioni formali, se ne potrebbero sollevare molte, come la non rituale ora notturna dell’atto, compiuto in privato e non in pubblico.

Gesù dimostra la piena conoscenza delle norme processuali quando chiede ad Anna (16): “ Perché interroghi me ? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro. Ecco questi sanno che cosa ho detto loro “. In altre parole, Anna avrebbe dovuto interrogare i testimoni non l’accusato ma non vi sono testi, tantomeno concordi, davanti ad Anna e neppure davanti a Caifa. 

Davanti ad Anna si esibisce un lacché del vecchio sacerdote che, per farsi bello con quest’ultimo, per reazione all’osservazione giuridica di Gesù, colpisce con un ceffone quest’ultimo che, con calma, gli risponde chiedendogli il motivo di tale atto, senza ricevere risposta dal maldestro personaggio.

DAVANTI AL SINEDRIO

Nella stessa notte, Gesù, sempre in stato d’arresto, viene portato al processo davanti al Sinedrio, presieduto da Caifa. Non c’erano tutti i suoi membri a quell’ora, ma c’era comunque il quorum, di 23 membri (71 era il plenum).

C’erano i Sommi sacerdoti, cioè quello in carica e i predecessori, il capo del Tempio, il sorvegliante sacerdotale e tre tesorieri.

C’erano poi gli Anziani, rappresentanti delle più importanti famiglie laiche, per lo più ricchi proprietari terrieri, tra cui Giuseppe d’Arimatea.

Queste due categorie erano tratte dai Sadducei, conservatori, materialisti e, più o meno (solo strumentalmente), “filo romani”.

A rappresentare l’ala progressista e moderatamente “anti romana”, cioè i Farisei, c’erano gli Scribi, cioè gli avvocati della piccola “borghesia”. Erano fanatici ed energici e odiavano Gesù per la sua predicazione. Assomigliavano molto ai legulei borghesi della Rivoluzione francese. Anche tra loro c’erano, però, uomini retti, come Nicodemo. Un altro scriba fariseo di retto sentire era Gamaliele I, il futuro “maestro” di Paolo di Tarso. I Farisei erano i predecessori dei rabbini, attorno a cui si costruirà il Giudaismo del Talmud e della Qabbah, quello del "Rifiuto".

Coi sinedriti disposti a semicerchio, ai due lati i “cancellieri-scrivani”, in mezzo Gesù e i testimoni e dietro, disposti in tre file, gli “uditori” scribi: questa era l’immagine del processo.

Il processo è  certamente anomalo, anche perché fu segreto, in violazione delle regole vigenti (Deuteronomio 16 : 18 e Rut 4:1) che prevedevano la pubblicità del processo ma quello che è più grave è l’assoluta carenza di terzietà dei giudici. L’evangelista Marco (14-55) dice : “ Tutto il Sinedrio cercava prove contro Gesù per farlo morire”. L’espressione, specie per un giurista, è agghiacciante. Il Sinedrio era un Tribunale che cercava prove a carico contro l’imputato che voleva venisse ucciso, perché di prove non ve ne erano, eppure Gesù era stato arrestato. I sinedriti volevano condannare Gesù, ma non sapevano perché. Mancavano i testi a discarico. Perché ? Probabilmente non c’erano (i discepoli erano fuggiti) o erano stati “dissuasi” dal presentarsi o si fossero comunque spaventati.

Nel processo penale ebraico mancava il Pubblico Ministero e l’accusa la svolgevano ufficialmente i testi a carico. Di fatto, si è compresa l’opinione dei giudici che avrebbero dovuto essere imparziali e non lo erano.

I primi testimoni furono inutili per i Sinedriti, tanto che di essi non si sa nulla e allora furono chiamati altri due testi, meno apertamente inattendibili e di loro si sa qualcosa. 

Gli stessi riportarono una frase che Gesù avrebbe pronunciato: “ Io distruggerò questo Tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne rifarò un altro che non sarà fato da mani d’uomo” (Mc, 14-58). Gesù aveva, in effetti, pronunciato una frase apparentemente simile e cioè: “ Demolite questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Giov., 2,21), alludendo al suo corpo. La frase realmente pronunciata da Gesù non conteneva, però, una minaccia come quella riferita dai testi che era pericolosa e grave: l’accusa di avere minacciato la distruzione del Tempio era passibile di morte, perché si trattava di una gravissima bestemmia. L’accusa era falsa ma, essendovi contraddizione tra i testi, non furono presi in considerazione.

Con i testimoni, quindi, il Sinedrio non aveva ottenuto alcunché. Si passò, quindi, all’interrogatorio dell’imputato. E’ Caifa che vi procede. Gli fa domande su quello che dicono contro di lui e Gesù tace. Caifa si spazientisce e arriva ad una domanda provocatoria: “ Sei tu il Messia, il figlio del Benedetto ?”.

Caifa vuol sapere da Gesù se Egli si consideri o meno il Messia (a prescindere dalla filiazione divina, inimmaginabile per gli ebrei). E’ talmente nevralgica la domanda che Matteo fa precedere la domanda stessa da questa espressione“ Io ti scongiuro pel Dio vivo, di dirci…..” (Matteo, 26-63). "Dio vivo ?"Caifa ha perso il controllo di sé perché ha pronunciato il nome di Dio.

Tutto dipende ora dalla risposta di Gesù il quale risponde di esserlo. E aggiunge. “E voi vedrete il Figlio dell’uomo assiso a destra della potenza, venire sulle nubi del cielo” (Marco, 14, 62). Il Messia, legittimato da Dio, ecco quello che, per i Sinedriti, Gesù non avrebbe dovuto affermare.

Non bastava, per il diritto processuale ebraico, la confessione, ma, nel clima di illegalità di quel processo,  Caifa esulta perché ha raggiunto il suo scopo e propina la sceneggiata della rottura delle vesti e domanda a tutti maliziosamente che bisogno ci fosse ormai di testimoni. Infatti Gesù aveva confessato la “bestemmia” ed era reo di morte, cioè meritava la morte. Quando il Sommo sacerdote si stracciava le vesti, qualunque fosse il suo reale pensiero, quel gesto significava che l’imputato era condannato a morte. Vedremo che vi era anche un altro, più profondo significato.

Per quel delitto, infatti, la legge mosaica prevedeva la condanna a morte per lapidazione e  il Sinedrio decreta Gesù meritevole di tale condanna che, non essendo appellabile per l’ordinamento ebraico, era divenuta definitiva.

Essendo, però, la Giudea prefettura romana (della Provincia della Siria), lo jusgladii, cioè il potere di condannare a morte,con la modalità della crocifissione, era riservato al Prefetto romano. I sinedriti lo avevano condannato ma non potevano eseguire la sentenza e allora, per un meschino moto di rivalsa, sottoposero Gesù a maltrattamenti vari, sputi, percosse, apposizione di un bendaggio, insulti e domande irriverenti.

Finita la fase ebraica, i sinedriti decisero di “trasmettere gli atti”, con l’idonea e appropriata “documentazione”, e lo stesso condannato al Procuratore Pilato. Era l’alba del venerdì, per San Giovanni, il 14 Nisan, la Parasceve della Pasqua (calendario dei Sadducei).

Gli ebrei non potevano condannare a morte, tantomeno alla crocifissione e questa era una pena romana, quella prevista per il delitto di lesa maestà, e  gli Ebrei volevano che, comunque, Gesù venisse crocifisso. Più avanti, vedremo perché.

IL DEFERIMENTO AL PREFETTO

I romani avevano il diritto di ratificare una sentenza ebraica. Trattandosi di due diversi ordinamenti giuridici, il processo romano era di “delibazione”.

Da noi esiste la legge 218/1995, recante la disciplina del Diritto Internazionale Privato con cui l’ordinamento italiano stabilisce il riconoscimento della sentenza e del provvedimento straniero.

Nel processo romano di delibazione, l’autorità imperiale doveva vagliare sommariamente il caso e decidere se ratificare o meno la sentenza ebraica. Si suppone sommariamente perché i romani rispettavano il potere giudiziario dell’ordinamento assoggettato e, quindi, il vaglio non era accurato come nel processo ordinario e si concentrava sulla regolarità formale della condanna da delibare.

Orbene, la condanna ebraica era stata per bestemmia.

E allora cominciano i problemi, perché ? Anche se il giudice romano doveva tener conto dell’accusa e della condanna pronunciata dagli ebrei, ciò non poteva accadere chiaramente nel caso di “bestemmia” che, non essendo violazione di “usi culturali”, non apparteneva ai delitti che la legge romana perseguiva e, soprattutto, che puniva con la morte.

Ci si trova di fronte, pertanto, a due processi, quello religioso, ebraico e quello politico, romano e, sebbene il primo non potesse portare all’esecuzione della condanna capitale, necessitando della “ratifica” del secondo, in una Prefettura come la Giudea, il processo ebraico, di fatto, era quello che delegittimava il condannato molto più che quello romano perché agli ebrei interessavano le proprie leggi e il proprio metro di giudizio e, solo per consentire l’esecuzione della condanna a morteper crocifissione, Gesù viene presentato come un sovvertitore anti romano, cosa che Gesù non era nel modo più assoluto. Ci si trova di fronte ad un paradosso: il vertice ebraico è ostile a Gesù, parte del vertice stesso, quello di tendenza farisaica e la gran parte della popolazione, oltre agli zeloti, sono anti romani, eppure, per far passare la condanna a morte, si presenta Gesù come un responsabile di torbidi anti romani.

Il processo romano si celebrava davanti ad un giudice “monocratico”, il Procuratore (o, meglio, Prefetto, titolo più appropriato a Pilato, perché solo successivamente il governatore romano sarebbe stato chiamato “procurator”) che cumulava in sé tutti i poteri (salvi quelli riservati al Sinedrio).

Si trattava, nella vicenda che trattiamo, come s’è detto, di un processo volto essenzialmente alla ratifica della sentenza ebraica. Gli Evangelisti non dicono che Gesù fu condannato anche da Pilato. Non lo dicono chiaramente. Anzi Marco conclude il suo racconto del processo con queste parole: “ Ora Pilato…..flagellato Gesù, lo consegnò per essere crocifisso” (Marco 15, 15).

Si tratta evidentemente di un’approssimazione dovuta alla scarsa cultura giuridica degli Apostoli. E’ vero che, presso i Romani vigeva il principio del ne bis in idem, secondo cui non si poteva essere giudicati due volte per lo stesso fatto, ma, a parte il fatto che, nel processo ebraico, l’accusa era stata la bestemmia, mentre in quello romano, l’accusa era la sedizione, il principio valeva per le situazioni fisiologiche di due sentenze entrambe romane, non nella particolarissima necessità di un ulteriore processo per dare esecuzione (e rivalutare) ad una sentenza straniera, emessa, per di più, nella ribelle prefettura di Palestina.Quali fossero i limiti della rivalutazione romana della decisione ebraica non è del tutto chiaro.

Come ho detto, il giudice romano era monocratico e gli assessorese comites  che affiancavano Pilato non cooperavano alla sentenza, ma fungevano solo da consiglieri. Il dibattimento era, in parte pubblico e veniva introdotto in parte dall’accusa, presentata da un privato e in parte dall’inchiesta della magistratura. Neppure qui c’era un accusatore pubblico, il Pubblico Ministero. C’erano i denuncianti, cioè il Sinedrio ebraico.  Valeva il principio della libera valutazione delle prove. Poi l’accusante, cioè il denunziante, presentava l’accusa e l’accusato la sua difesa. Dopo l’assunzione delle prove (interrogatorio dell’imputato e testi), un araldo ne dava l’annuncio. Il giudice deliberava la sentenza valendosi del parere anche dei suoi assistenti e, dall’”alto del tribunale”, veniva pronunciata la sentenza che doveva essere immediatamente eseguita.

Nei vangeli, il luogo ove si svolse il processo viene chiamato “pretorio” che in questo caso significava la residenza dell’imperatore. Il palazzo residenza del prefetto (quando, in occasione delle festività, si trasferiva da Cesarea Marittima, luogo di residenza stabile, a Gerusalemme) era, verosimilmente, quello di Erode, non già la Fortezza Antonia. 

Di Pilato ci è pervenuto, come s’è visto, un ritratto contraddittorio

Si è detto che fosse ostile ai Giudei.

L’antisemitismo di Pilato e, d’altra parte, la crescente consapevolezza, da lui nutrita, sull’innocenza di Gesù spiegano molto bene il suo atteggiamento sostanzialmente favorevole a quest’ultimo. Del resto, pur essendo ebreo, Gesù era odiato dall’establishment religioso giudaico che era il suo “accusatore” nel processo e, d’altra parte, nessun atto della sua vita poteva essere interpretato come mosso da ostilità contro Roma e il suo Impero, mentre Gesù non perdeva una sola occasione per attaccare i farisei e l'infedeltà di quello che era il suo popolo.  Anzi, nel famoso incontro con il centurione preoccupato per la sorte del suo servo, Gesù rimase profondamente colpito e ammirato dalla semplicità e dalla rudezza dell’ufficiale che vede in lui un uomo a cui ubbidiscono le forze della natura e che, con un suo ordine, sarà in grado di guarire il servo, un po’ come lui che sa bene che i suoi soldati della centuria ubbidiranno ad ogni ordine del loro comandante. Quindi, secondo il centurione, bastava un ordine di Gesù che non doveva recarsi “sotto il tetto” del centurione, cioè a casa di un incirconciso e, quindi, impuro agli occhi dei Giudei. Gesù, di fronte all’incontro con un “gentile”, rimane impressionato e ammirato e indica agli ebrei l’ufficiale romano come esempio di fede.  Questo episodio, in particolare, oltre a urtare ancora di più gli ebrei, dimostra che, soprattutto gli uomini della guarnigione romana (era una Coorte) di Gerusalemme, così privi di “sovrastrutture” religiose di tipo scritturistico, tradizionalmente inseriti in un mondo fondato sulla Lealtà e Obbedienza e impregnati dei valori ancestrali dei “mores maiorum” (e delle loro espressioni: Fides, Pietas, Maiestas, Virtus e Gravitas) si trovassero in genere in immediata e istintivasintonia con un messaggio religioso di tipo “sostanzialistico” e non “formalistico” e ricevessero la convinta ammirazione di Gesù. Gesù sa infatti che la sua Chiesa, quella della Nuova ed Eterna Alleanza, sarà "romana" e universale.

Pilato “tifa” immediatamente e istintivamente per Gesù perché lo vede contrapposto al Sinedrio e alla classe dirigente ebraica e, implicitamente, per lui, a quel popolo recalcitrante e ribelle a cui voleva far pesare il suo disprezzo. Tale atteggiamento si accentua ancora di più quanto più Pilato si rende conto che l’uomo di Nazareth è innocente e che il processo davanti ad Anna e a Caifa è stato costellato di illegittimità.

Giunti davanti al Pretorio, i sinedriti consegnano Gesù al governatore ma non entrano nell’edificio per il solito timore dell’impurità rituale derivante dagli incirconcisi romani che, ancora oggi, unisce i discendenti carnali di Abramo, ebrei e arabi islamici, oltre ogni loro disputa interna.

Siamo al momento in cui i denunzianti formulano l’accusa contro l’imputato, il momento della contestazione, nel processoromano.

Secondo l’Evangelista Luca (Luca, 23,5), i sinedriti avevano presentato contro Gesù tre “capi d’imputazione” ecioè: Gesù avrebbe sollevato il popolo; avrebbe dissuaso gliebrei dal pagare la tassa imperiale ai romani; si sarebbespacciato per il “Messia – Re”.

Tutti i processualpenalisti sanno quanto sia importante il capo (o i capi) d’imputazione, cioè la fissazione dell’accusa iniziale che costituisce il binario entro il quale deve muoversi e concludersi il processo. Se qualcosa deraglia e va fuori, questo implica oggi la nullità della sentenza e il processo riparte daccapo.

Qui, la situazione era però complicata.          

L’unica accusa, sia pure debolmente, sostenibile era la terza ma non era chiaro il significato di quell’espressione. Gesù come falso Messia (Re), quindi: con questa accusa il Sinedrio cercava di “tradurre” in chiave potenzialmente politica quella che era un’accusa solo religiosa. Solo che, per poter far “accettare” a Pilato quell’accusa dovevano attribuire falsamente a Gesù proprio quella caratteristica (la ricerca del potere politico) che invece mancava chiaramente in Gesù ed è proprio tale mancanza che lo rendeva “falso Messia”, agli occhi del Sinedrio e della gran parte della popolazione.

“Che accusa portate contro quest’uomo ?” domanda loro Pilato. I sinedriti, che ora sono non i giudici ma gli accusatori, rispondono che Egli si è proclamato “Re dei Giudei”.

Pilato costringe quindi gli ebrei a scoprire le carte: essi vogliono la morte di Gesù (per crocifissione) ma non possono dargliela direttamente in questo modo, perché quella pena di morte la può applicare solo il procuratore romano. Ciò consente a Pilato di entrare, in qualche modo, nel merito delle accuse a Gesù. “Sei tu il Re dei Giudei ?” chiede dunque Pilato a Gesù secondo la concorde testimonianza degli Evangelisti (Marco, 15,2; Matteo, 27,11; Luca 23,3; Giovanni, 18,33). 

I sinedriti “traducono” così, in una chiave politica, l’espressione ambigua“Messia” che avrebbe lasciato del tutto indifferente Pilato che, invece, di fronte al fatto che Gesù si afferma “Re dei Giudei”, non può esimersi dal procedere. L’accusa, quindi, nasce religiosa ed ebraica e tale si mantiene nella sostanza, ma, strada facendo, viene subdolamente presentata a Pilato sotto una sfumatura politica e romana, un equivalente di “alto tradimento”

La malafede dei sinedriti è manifesta, gravissima e inescusabile. Essi operano un’inversione di significati e di prospettive che, ancor oggi, a tanta distanza di tempo, desta stupore. I sinedriti hanno condannato nel loro processo Gesù come bestemmiatore, respingendolo, come Messia, perché troppo “spirituale” e apolitico, mentre lo avrebbero presentato al processo romano come Messia “politico” proprio quello che loro avrebbero voluto che fosse ma, falsando consapevolmente la realtà dei fatti, per far sì che fossero i Romani a mandarlo a morte e a morte per crocifissione.

Tutti i tentativi che tanti studiosi hanno compiuto per allontanare dal vertice politico-religioso ebraico la responsabilità di questa terribile condanna e rovesciarla sui romani, cadono di fronte all’evidenza dei fatti, come lo stesso Gesù, peraltro, affermerà.

Se avessero deciso di lapidarlo, avrebbero, forse, potuto farlo. E invece, no. Vogliono “ucciderlo” due volte, con la crocefissione.

Il Nuovo Testamento sottolinea il fatto che Pilato, dopo che Gesù venne consegnato a lui, voleva che il condannato venisse giudicato secondo la legge degli ebrei, ma che essi preferirono lasciare a lui la punizione poiché per loro non era possibile mettere a morte qualcuno sotto l’autorità romana (Gv18,31).

La domanda (Sei tu il Re dei Giudei ?), per come era stata alterata dai sinedriti, era ancora ambigua, potendosi riguardarla sotto un profilo prettamente religioso o sotto uno squisitamente politico e Gesù risponde : “ Tu lo dici”, ma con una riserva che lasciava aperta la questione (Marco, 15,2).  Pilato doveva, pertanto, chiedere agli accusatori di chiarire il contenuto delle accuse.  

Pilato, conoscitore delle leggi romane e dotato di cultura giuridica, non credeva a nessuna di quelle accuse. Per lui, il Sinedrio aveva intentato un processo contro un uomo innocente, un personaggio del tutto innocuo e, quello che più contava agli occhi di Pilato, odiato dal vertice religioso e politico ebraico.

Nel colloquio che Pilato ha con Gesù nel pretorio, egli si rende conto che il Regno di cui parla l’imputato non vada inteso chiaramente in senso politico ma non ne è del tutto convinto e chiede a Gesù se sia il Re dei Giudei. Gesù risponde con una domanda: lo dici da te o altri te l’hanno detto di me ? Pilato si spazientisce e risponde, facendo affiorare il disprezzo che prova per gli ebrei : “ Sono forse Giudeo ? La tua gente e i grandi sacerdoti ti consegnarono a me. Che hai fatto ?” Mentre il procuratore ha capito fin troppo bene la mala fede del Sinedrio, si trova spiazzato ad un uomo che, per lui, quasi certamente è un innocente. Gesù risponde che il Suo Regno non è di questo mondo perché se lo fosse stato, i Suoi ministri avrebbero combattuto perché non fosse consegnato “ai Giudei”. Si noti come Gesù risponde, staccandosi nettamente dal suo popolo e poi ribadisce: “Il mio Regno non è di quaggiù”.    

Pilato non capisce ma, cercando di tirare le somme, gli chiede: “Dunque, tu sei re?”. E Gesù risponde affermativamente e spiega il significato della sua regalità, affermando che è nato e venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità : “ Chi è dalla verità, ascolta la mia voce”. Segue la domanda di Pilato sulla “Verità”, ma ormai Pilato ha tratto le sue conclusioni: l’uomo che ha di fronte è tutt’altro che un delinquente, è un sognatore innocuo e, semmai, degno di compassione. Comunica ai Giudei la sua conclusione: “ Io, per me, non trovo in Lui colpa alcuna” (Giovanni, 18,38 e Luca 23,4).

Tentò, è vero, di liberarlo, per tre volte, ma si trattò di tentativi incerti e Pilato non riuscì a nascondere la sua incertezza ai sinedriti che sottolinearono che Gesù portava il popolo alla rivolta con il suo insegnamento iniziato in Galilea Galilea ? Ecco la via d’uscita. Pilato vuole accertarsi se Gesù abbia il suo domiciliumin Galilea. Sì, le ricerche lo confermano e allora Gesù è suddito del tetrarca Erode Antipa che, in quel periodo di feste, si trova a Gerusalemme. E se è così, competente a giudicare Gesù è quest’ultimo. Pilato si dichiara così territorialmente incompetente e manda Gesù da Erode. Il Procuratore non era obbligato a tale atto, ma poteva farlo e lo fece sia per liberarsi della “rogna” di quel processo sia per ricucire i rapporti con Erode che erano piuttosto tesi. E’ controverso se Pilato si aspettasse da Erode un semplice parere o se invece, come ritengono gli Evangelisti, sperasse che fosse il Tetrarca a risolvere il caso. Questa consegna fa capire, più di ogni altra considerazione, che Pilato si attendesse che anche Erode ritenesse Gesù innocente. Non avrebbe avuto senso, infatti, la consegna di Gesù, ribelle all’Autorità romana, al Tetrarca perché lo condannasse quando si trattava di un delitto ormai rivestito di connotazioni politiche contro l’Autorità di Roma. Il significato dell’atto di Pilato, però, è ancor’oggi controverso.

IL PROCESSO DAVANTI AD ERODE

         I sinedriti conducono allora Gesù al Palazzo degli Asmonei, poco lontano, residenza gerosolimitana del Tetrarca. Erode, il decapitatore di Giovanni Battista, è un principe frivolo, amante di ogni sorta di godimento e totalmente disinteressato a questioni “giudiziarie”. Quando si trova di fronte Gesù, una vana curiosità s’impadronisce del Tetrarca che dimentica il motivo per cui Gesù è stato condotto fino a lui e comincia a porgli domande Gesùsu domande per sapere di più sul mistero che circonda quest’uomo, l’imputato, solo apparentemente indifferente.

Ma Gesù rimane silenzioso e non alimenta i capricci di Erode che, a questo punto, si ricorda che quest’uomo è sottoposto ad un processo e che Pilato l’ha fatto condurre da lui. 

La fase “erodiana” dura poco perché il Tetrarca, dopo aver invitato i sinedriti ad esporre le proprie accuse, si sofferma unicamente su quella della dignità regale, ma solo per deriderla e per deridere Gesù che rimanda con disprezzo e ironia a Pilato l’imputato, trattato con scherno e rivestito di una veste pomposa.

Erode è l’incarnazione del “giudice minimizzatore”, di quello che tratta tutto con ironia e malcelato disprezzo, atteggiamento questo che consente di non prendere nulla sul serio e di allontanare da sé le responsabilità, mascherando il tutto con il ricorso fuorviante e paralizzante all’ironia, come se fosse stato Gesù il colpevole di quella situazione e non fosse invece evidente la sua innocenza e l’innocuità delle sue affermazioni. Tra la tetragona malizia dei sinedriti e la consapevolezza dell’innocenza dell’imputato che Pilato ha acquisito indubbiamente e che manifesta anche con un certo rispetto che il Procuratore dimostraa Gesù, il Tetrarca è il personaggio più ridicolo e, forse, il personaggio più attuale e conforme alla mentalità contemporanea e, purtroppo, alla mentalità di certi magistrati.

Da notare che, mentre Gesù parla poco, ma in tono “docente”, “ammonitorio” nel Sinedrio e dialoga con Pilato, non degna di una parola Erode. 

Degli evangelisti, è il solo Luca che parla di questo intermezzo “erodiano”, ma l’episodio è da ritenere plausibile verosimilmente come forma di “cortesia istituzionale” da parte di Pilato visto che anche Erode si trovava a Gerusalemme in quel momento e che Erode non emette alcuna sentenza ma si limita a ridicolizzare l’imputato.

L’ULTIMA FASE DEL PROCESSO DAVANTI A PILATO

Quando Pilato si ritrova nuovamente di fronte Gesù e, per di più, informato dell’atteggiamento ironico di Erode, è ancora più convinto che Gesù sia innocente. I limiti della sua giurisdizione sono noti e Pilato cerca di ottenere un risultato comunque assolutorio, seguendo  vie indirette.

Pilato conosceva una prassi di liberare un condannato quando il popolo, a gran voce, lo chiedesse.

La cosa era possibile anche nell’ordinamento ebraico: vi era l’usanza di liberare uno o più detenuti in occasione delle feste pasquali. L’usanza è richiamata nel trattato mishnaicoPesachim VIII, 6°., secondo cui vi era la possibilità di celebrare la Pasqua per un prigioniero che avesse ottenuto la promessa di essere rilasciato. Doveva trattarsi di un prigioniero israelita in un carcere romano.  Come al solito, però, ci muoviamo in quella difficile situazione della compresenza di due diversi ordinamenti che si intersecano, configgono ma, tutto sommato, convivono ed è proprio su questa ambiguità di fondo, che fa affidamento Pilato.

In ogni caso, l’episodio della scelta affidata al popolo presente di liberare l’uno o l’altro dei detenuti è confermata da Matteo (Mt27, 15-26); Marco (Mc 15, 6-15), Luca (Lc 23, 13 -25) e Giovanni (Gv 18, 39 – 19, 1). Se si sia trattato di un singolo atto di clemenza, come ritiene Paul Winter (vds. N. 29 di Wikipedia, alla voce “Barabba), o di un’amnistia occasionale, o invece, come sostengono gli evangelisti, di  una vera e propria prassi, non è del tutto chiaro. Del resto, gli evangelisti parlano di un’”usanza”  che, per Giovanni, era ebraica (Gv. 18, 38).

L’ordinamento romano conosceva la abolitio, cioè laliberazione di un imputato, non ancora condannato, istitutodiverso dalla indulgentia, corrispondente, più o meno, allagrazia concessa ad un condannato (definitivo) a seguito diregolare giudizio.

Per Pilato, lo strumento che voleva utilizzare, credeva, in favore di Gesù, era l’abolitio perché Gesù non era stato ancora condannato nel processo romano (né lo era lo zelota Barabba), ma gli ebrei potevano considerare quell’atto come una indulgentia, con un indiretto riconoscimento alla legittimità del processo ebraico.

Frattanto, cominciò a fare la sua comparsa una folla proveniente dalla città bassa di cui Pilato non afferrò gli umori (è la massa manovrata dagli zeloti e dai sinedriti), anzi li equivocò. Il convergere di questa folla, era finalizzato all’uso del suo diritto di supplica. Pilato accolse con sollievo l’arrivo dei “postulanti”, perché pensava che nutrissero sentimenti non ostili a Gesù e che lui, cioè lo stesso Pilato, avrebbe potuto graziare Gesù e ottenerne la liberazione, appoggiandosi alla prevedibile (solo per Pilato) pressione dei nuovi arrivati in favore di Gesù.

Si trattò di una evidentissima commedia degli equivoci: gli ebrei odiavano i romani, o in modo aperto come gli zeloti e i farisei, cioè l’”ala sinistra” del Sinedrio o in modo sotterraneo e nascosto come i sadducei. Gesù era l’obbiettivo dell’odio di tutti costoro e, oggettivamente, in quelle condizioni, solo personaggi sinceramente filo romani  avrebbero potuto schierarsi dalla parte di Gesù. Pilatonon si rese conto di questo fortissimo sentimento antiromano che faceva pendere la bilancia contro quest’ultimo. Quella folla era probabilmente accorsa per sostenere le ragioni di Barabba, il personaggio, zelota e coinvolto in crimini contro i militari romani, di cui già si sapeva che avrebbe dovuto costituire l’alternativa a Gesù nella decisione di Pilato circa il privilegiumpaschale e questo rende ancora più grave l’ingenuità di Pilato. Quali possibilità vi erano che quella folla che, se avesse potuto, avrebbe massacrato i soldati romani presenti, scegliesse il condannato dal Sinedrio, un uomo che aveva “bestemmiato”, secondo loro e che era oggettivamente inviso al vertice politico e religioso ebraico e, alla peggio, indifferente ai romani, com’era possibile, si diceva,che quell’uomo potesse essere preferito ad una specie di “brigatista” o, meglio, “jihadista” antiromano e che godeva, per questo, del segreto favore popolare ? E non va dimenticato che gli zeloti, a cui apparteneva Barabba, erano coinvolti nel complotto contro Gesù, tramite Giuda Iscariota. Pilato addirittura prende l’iniziativa di proporre proprio Gesù come il beneficiario del privilegiumpaschale, provocando la dura reazione dei sinedriti e del popolo radunato che chiede a gran voce la liberazione di Barabba.

E’ con l’intervento del “popolo”, in realtà degli agitatori della città bassa e della “periferia”, che si affermerà il concetto di “popolo deicida” che tanto peserà nei secoli avvenire, aggravato dall’innegabile ostilità verso Gesù e la Vergine Maria attorno alla quale si “costruirà” il giudaismo talmudico e rabbinico, così diverso dall’ebraismo templare e sacerdotale dell’Antico Testamento, l’ebraismo dell’”attesa” (del Messia).

Forse, in quella folla rabbiosa c’erano persone che nella Festa delle Palme avevano tributato onori e “osanna” a Gesù. Perché cambiarono così radicalmente atteggiamento ? In parte perché gli osannanti della festa delle palme erano pellegrini galilei, generalmente ben disposti verso Gesù, in parte perché la condanna di quest’ultimo come bestemmiatore dalla sola autorità giudiziaria che gli ebrei riconoscevano, cioè il loro Sinedrio, spense qualunque velleità di appoggio popolare all’imputato. Gesù era stato condannato essenzialmente dagli Ebrei per motivi religiosi, Barabba invece dai romani per motivi politici. A quest’ultimo andava il favore della folla.

Pilato non se l’aspettava, perde il controllo della situazione e commette un altro grave errore. Si rivolge alla folla e le chiede cosa debba fare di quest’uomo che loro chiamavano il Re dei Giudei e la folla risponde con un urlo raggelante: “ Crocifiggilo !” (Marco 15, 13). Sinedriti e folla sono antiromani, ma esigono che a fare il lavoro “sporco”  siano i romani e le loro pene: mandanti, forse, ma non esecutori. Esigono che Gesù sia sottoposto al supplizio romano della crocifissione, la pena prevista per i rei di Alto tradimento dalla Lex Iulia laesae maiestatis, emanata da Augusto l’8 a. C., quella che veniva applicata agli schiavi, ai sovversivi e agli stranieri e non poteva colpire i cittadini romani.

Vi erano anche altre pene, come quella di essere sbranati da animali feroci o arsi vivi ma, per i provinciali della Giudea, era la crocifissione la forma di tortura e di pena preferita. Al tempo della scomparsa di Erode il Vecchio, nel 4 a. C., il legato di Siria, Quintilio Varo, quello che trovò la morte nella foresta di Teutoburgo, fece crocifiggere duemila ebrei.

Pilato non era un uomo esemplare ma era un romano e aveva sufficiente sensibilità giuridica per rendersi conto dell’assurdità giuridica di quell’atteggiamento del vertice e del “popolo” ebraico e gli sembrava incredibile che costoro fossero così ingiusti e crudeli nei confronti di un uomo della loro stessa stirpe.

A malincuore chiede alla folla di indicargli il delitto di alto tradimento che fa meritare al condannato un supplizio così atroce e torna ancora a chiedere: “ Che ha fatto dunque di male ? “ (Marco, 15, 14a), ma la folla si eccita di fronte all’imbarazzo del procuratore di cui ignora la domanda e insiste con il “Crocifiggilo !”. Pilato si era cacciato in una situazione insostenibile, mettendosi a discutere col popolo che, quando è scatenato, è pericolosissimo e difficilmente contenibile. Un gesto di coraggio e di orgoglio avrebbe salvato la faccia a Pilato ma le cose erano arrivate a un punto tale che un gesto di forza avrebbe scatenato la folla con esiti imprevedibili anche perché Pilato non poteva ignorare che, comunque, aveva sbagliato gravemente nel discutere con i giudei.

A Gerusalemme, in quel momento, c’era una sola coorte (un decimo di una legione). 500 uomini, forse 800 circa, La X LegioFretensis era relativamente distante, in territorio siriano, troppo lontana

Prima di decidere, Pilato viene però esortato dalla moglie a non immischiarsi nelle cose “di quel giusto” e la stessa moglie gli rivela di un sogno nel corso del quale ebbe a soffrire molto per causa di lui, frasi sibilline ma che si traducono in sostanza in un invito a lasciare libero quell’uomo innocente. L’altro episodio che precede la decisione è la lavanda delle mani da parte di Pilato che, consapevole di non poter più controllare la plebaglia, si lava le mani, in un gesto tipicamente ebraico ma non sconosciuto ai romani e dice : “ Io sono innocente di questo sangue; pensateci voi”.

A queste parole, “tutto il popolo” esclamò : “ Il sangue di lui ricada su di noi e sui nostri figli”(Matteo, 27, 24). Matteo usa il termine “popolo”, con ciò stesso accusando l’intero popolo ebraico che, per bocca dei propri rappresentanti, aveva decretato la condanna a morte del Figlio di Dio.

L’alleanza del Sinai “comportava la responsabilità di tutto il popolo per le infrazioni e le infedeltà di un solo membro….l’unico modo che il popolo aveva per <liberarsi>di questa colpa collettiva di fronte a Jahjvè era quello di condannare il reo per il suo peccato-reato. Era questo appunto il modo di ripristinare il patto santo, non tanto per una vendetta in favore della divinità quanto per operare una liberatoria dissociazione di tutti i membri della comunità rispetto al colpevole…è questa sentenza che mette Gesù al bando della comunità israelitica, senza il quale bando,…mai gli israeliti avrebbero potuto < consegnare> uno di loro ai Gentili….nel caso ai Romani per di più oppressori” (17).

Certo, non tutti i giudei di allora erano presenti in quel luogo. Non vi era Maria, non vi era Giuseppe, non vi erano gli Apostoli, salvo Giuda Iscariota. E, tra i presenti, vi era un grado di colpevolezza supremo, quale quello di Caifa e gradi minori tra i semplici “spettatori – accusatori”.

Per accontentare la plebaglia, Pilato fece, quindi, liberare Barabba e fece flagellare Gesù, sottoponendolo ad un supplizio terribile che, nel caso di Gesù, veniva compiuto con flagelli o fruste composte di cinghie di cuoio alle cui estremità vi erano pungiglioni o pezzi di osso disposti a catena o palle di piombo. Nel diritto romano, inoltre, non era prevista una limitazione dei colpi e spesso il malcapitato moriva nel corso della stessa flagellazione. 

Perché Pilato fa flagellare Gesù ? Va detto che, per i Romani, la flagellazione poteva essere uno strumento di tipo “inquisitoriale”, volto a provocare una confessione, ovvero poteva essere utilizzata come pena di morte, oppure ancora come un castigo indipendente o come preludio alla crocifissione. Nel caso di Gesù, la flagellazione precedette la condanna a morte e, tra le tante spiegazioni, la più verosimile è quella dell’Evangelista Giovanni secondo cui la flagellazione ai danni di Gesù ebbe il significato di “castigo indipendente” col quale Pilato cercò, ancora una volta, di salvare Gesù dalla crocifissione, sperando che, con quella tortura, i Giudei si sarebbero “accontentati” e che il loro odio contro l’imputato si sarebbe placato. Sbagliava ancora. Ma che questa fosse l’intenzione del prefetto, lo conferma la frase che lui pronunciò due volte prima del supplizio : “ Io gli infliggerò un castigo e poi lo libererò” (Luca, 23, 16, 22). E’ tuttora incerto quale fosse il crimine a cui fu applicata una simile pena che non poteva essere l’alto tradimento punito solo con la morte e in cui la flagellazione aveva funzione preparatoria. 

Il supplizio ebbe così inizio ma non nella piazza antistante il pretorio, davanti agli occhi della folla, ma all’interno dello stesso pretorio. Il supplizio fu, quindi, assolutamente “privato” perché Pilato non voleva intimorire la folla. I militari della coorte acquartierata nel pretorio odiavano gli ebrei ma questo non “giocò, stavolta, a favore di Gesù”. Ora i soldati sfogarono il loro odio contro un rappresentante di quel popolo disprezzato e da loro incompreso.    

Gesù venne letteralmente mascherato da Re con la clamide di un littore, con la corona di spine e con la canna e deriso in questa sua pretesa regale di cui ovviamente i Romani colsero unicamente il profilo “politico”.  

 L’imputato (perché tale ancora era, per i romani) fu ricondotto da Pilato che confermò di non vedere alcuna colpa in quell’uomo e, rivolto ai giudei, presentò loro Gesù con la frase “Ecce homo” (Giovanni 19, 5). Pilato si dimostrò ancora una volta un pessimo psicologico. Quell’indecorosa “carnevalata”, quella triste parodia della regalità che accompagnò Gesù e, prima ancora, la flagellazione avevano due scopi, per il Prefetto: dapprima, con il terribile spettacolo della flagellazione, per di più sine culpa, Pilato intendeva muovere a pietà i sinedriti e i giudei accorsi, poi, mascherando Gesù da “Re burletta”, egli cercava di far leva sull’ironia e spingere i giudei a ridere e ad attenuare il loro odio di fronte allo spettacolo penoso e grottesco di un Gesù, ridotto a un Re da “burla”. A Pilato interessava salvare quell’uomo innocente dalla morte e questi gli sembravano, ormai, gli unici mezzi rimasti. 

Ma, implacabili, i Sinedriti e la folla dei giudei urlarono di nuovo : “ Crocifiggilo ! Crocifiggilo !” (Giovanni, 10, 6a).

Allora Pilato replica con un’esclamazione pericolosissima che ha dell’inverosimile e che dimostra che il governatore era ormai arrivato ad un punto estremo di esasperazione: “Allora prendetelo voi e crocifiggetelo, perché io non trovo colpa alcuna in lui !” (Giovanni, 19, 6b), cosa questa detta in tono volutamente polemico perché i Giudei non potevano mettere a morte Gesù tantomeno per crocifissione.

A questo punto, i Giudei ribattono: “Noi abbiamo una legge e, secondo questa legge deve morire perché si è fatto il figlio di Dio “ (Giovanni 19, 7). Non resta loro che rifarsi al processo ebraico che aveva stabilito che Gesù meritava la morte per bestemmia, la vera accusa che torna a riaffiorare.E’ vero che Pilato non era vincolato da questo tipo di condanna ma era comunque obbligato a rispettare il “sentimento” religioso della popolazione. Anche i Giudei, qui, si trovano in difficoltà. Ma la notizia che Gesù si era proclamato Figlio di Dio fece impressionesu Pilato: da pagano quale egli era, non doveva apparirgli irrealizzabile una tale situazione e, considerato il comportamento nobile e dignitoso di Gesù, ora Pilato cominciò a chiedersi  se davvero quell’uomo non fosse espressione di una divinità. Pilato prova una sensazione di timore nuova e crescente e riconduce Gesù, per l’ennesima volta, nel pretorio dove gli chiede: “Donde sei tu ?”, cioè sei un semplice uomo o sei “divino” ?  

Gesù tace e Pilato, esasperato da quel silenzio e sempre nell’intento di aiutare l’incolpato, gli chiede perché non gli parlasse e sottolinea il fatto che egli avesse il potere di liberarlo o di crocifiggerlo. Gesù, di rimando, gli risponde: “ Tu non avresti alcun potere su di me se non ti fosse stato dato dall’alto” (Giovanni 19, 11a), con ciò alludendo al fatto che, nel piano divino , Pilato svolge il ruolo di mero esecutore della condanna che lui ha cercato continuamente di evitare, mentre i Sinedriti e gli agitatori dagli stessi mobilitati sono mossi da un odio spietato e colpevole verso Gesù.

Molti studiosi hanno oggi cercato di addossare la responsabilità dell’uccisione di Gesù a Pilato, altri, confondendo la causa efficiente con la causa finale, hanno finito con l’estenderla a tutti gli uomini perché tutti bisognosi di redenzione.

i Vangeli e le parole di Nostro Signore non lasciano, però, margini per questi tentativi e infatti, proprio a Pilato e all’interno del Pretorio, Gesù stesso dice: “Perciò chi mi ha consegnato nelle tue mani, ha maggior peccato” (Giovanni 19, 11b). Non tutti i Giudei, ma certamente il loro vertice politico – religioso (salvo sparute eccezioni) e la gran parte della popolazione della bassa Gerusalemme, all’esito di un processo, cioè i due estremi della popolazione, mentre, fosse stato per i Romani, nessun processo vi sarebbe mai potuto essere. Questa è la realtà.

Quando Pilato sente quel riferimento al potere venuto dall’alto, ne comprende il significato, rompe gli indugi e si decide a liberare Gesù (Giovanni 19, 12a). Capisce che a volerlo mettere in croce sono i sinedriti ma che è lui che deve apparire come l’autore della condanna.

I Giudei sono sgomenti, capiscono che quello è il momento decisivo. Sta per sfuggire loro il risultato del loro complotto, insano, malvagio e tale da meritare loro, secondo quello che loro stessi si “augurano”, le più terribili punizioni, complotto, però, provvidenziale nell’economia della Redenzione.

I Giudei fanno allora il loro ultimo tentativo, il più pericoloso e “irresistibile”. Minacciano Pilato di denunciarlo  a Tiberio e gridano: “ Se lo liberi, non sei amico di Cesare; chiunque si fa re, si oppone a Cesare “ (Giovanni 19, 12 b). La scena è tragica ma c’è un che di grottesco nel “giocare” i Sinedriti e i Giudei a fare gli “amici” di Cesare, loro che, al fondo, qualunque fossero le loro posizioni, lo odiavano più o meno platealmente ma con un’asprezza che nessuno poteva contestare e lo fanno per compiere una vendetta puramente giudaica contro un loro nemico (così lo avvertivano) lasciando che fossero però i Romani a “togliere loro le castagne dal fuoco”.

Pilato conosceva sin troppo bene il cinismo e la determinazione di quegli uomini con i quali era in corso un braccio di ferro che doveva portare un innocente a patire il più terribile supplizio che la storia ricordi. Già, Giuseppe Flavio aveva parlato del timore del Procuratore Floro di essere accusato dai Giudei presso l’imperatore (Giuseppe Flavio, Bell. 2, 14, 3). L’imperatore era lontano: sentirsi dire dagli stessi Giudei che il Prefetto romano aveva rilasciato un uomo che si proclamava Re dei Giudei, dopo che loro stessi l’avevano condannato (anche se per bestemmia), avrebbe verosimilmente comportato quantomeno un grave sospetto di negligenza ed infedeltà, oltre che di favoreggiamento verso agitatori ebrei. Gesù avrebbe potuto essere scambiato dall’imperatore per uno zelota o quasi.  Era un rischio che Pilato non poteva correre. Perché tutto questo avrebbe potuto renderlo passibile di “lesa maestà”, un delitto a cui Tiberio era sensibilissimo.

E così, Pilato crollò: temeva più il suo imperatore che il misterioso condannato dal Sinedrio e le sue allusioni alla sua missione divina.

Pilato fece allora condurre fuori Gesù, salì sulla tribuna e si sedette sul seggio di giudice ma non poté trattenersi dal vendicarsi contro i Giudei per la parte miserevole che lo costringevano a recitare perché diede alla sua sentenza, cioè alla motivazione della stessa, un contenuto che ferì l’orgoglio degli stessi: invece di spiegare la condanna come dovuta al fatto che Gesù “si era fatto re dei Giudei”, egli affermerà ironicamente: “ Ecco il vostro Re” (Giovanni, 19, 14). I Giudei risposero col solito, ossessionante grido: “Crocifiggilo” e allora Pilato, come a sottolineare il fatto che questa decisione era solo del Sinedrio e dei giudei presentiche ne avrebbero portato la responsabilità per sempre, domanda ancora alla folla ormai fuori controllo: “ Ho io da crocifiggere il vostro Re ?” (Giovanni 19, 15 a), come a volerli indurre ancora a riflettere, per l’ultima volta ma i Giudei risposero, continuando la sceneggiata del “lealismo” verso l’imperatore che era una menzogna clamorosa e sfacciata in quella ribelle terra di Giudea: “ Noi non abbiamo altro Re che Cesare !” (Giovanni 19, 15 b).

Pilato pronunciò così la condanna che si esprimeva con le parole: “ Ibis in crucem” (Andrai in croce !) o “Abi in crucem !” (vattene in croce !).

Il fatto che gli Evangelisti non riportino le parole della condanna, ha fatto pensare che Pilato non abbia voluto intenzionalmente pronunciare la condanna a morte, ma ciò contrasterebbe con il capo d’accusa scritto nel cartello sopra la croce e con la stessa esecuzione della condanna che poteva essere pronunciata solo da lui, Pilato che, per di più, era assiso nell’alto di una tribuna (Giovanni 19, 13), nel momento in cui consegnò il condannato ai soldati romani (ulteriore conferma). La condanna a morte doveva infatti essere pronunciata dall’alto di una tribuna. Quindi, dobbiamo concludere che Pilato emise, sia pure controvoglia, una vera condanna a morte, anche perché, mentre nel processo ebraico, Gesù viene condannato per bestemmia, in quello romano il reato è prettamente romano, cioè l’essersi proclamato “Re dei Giudei” e avere commesso quindi il delitto di lesa maestà.

La sentenza era immediatamente esecutiva e non abbisognava dell’approvazione imperiale. Nel caso di Gesù era, inoltre, inappellabile e Pilato non attese del tempo, come avrebbe potuto, anche in considerazione della pericolosità della situazione. Il reparto militare incaricato dell’esecuzione era composto di quattro soldati, comandati da un centurione. Si trattava di militari delle truppe ausiliarie che venivano reclutati tra i Siri o i Samaritani, implacabilmente ostili ai Giudei. Il centurione, invece, (o praefectus) era un ufficiale corrispondente all’odierno capitano, proveniente da una legione, probabilmente la X legioFretensis, di stanza in Siria e, quindi, cittadino romano.

Poiché Gesù era stato già flagellato, egli probabilmente non fu condotto svestito nel luogo dell’esecuzione anche perché ciò era indecente per i Giudei. A Gesù furono quindi restituite le sue vesti e fu tolto il mantello rosso, mentre la corona di spine gli rimase sul capo. Gesù non fu di nuovo flagellato, mentre portava la croce, poiché una seconda flagellazione, dopo quella subita nel Pretorio, lo avrebbe verosimilmente ucciso.

Gesù, per i Giudei, doveva morire sulla croce come “maledetto da Dio”  (Deut. 21, 22-23).

La pena infamante della crocifissione era ben conosciuta in Giudea dove ebbe numerosissime applicazioni e i Romani l’avevano importata dai Cartaginesi. Gli Ebrei conoscevano solo l’affissione al palo, il cui significato fu poi esteso anche ai crocifissi. I Giudei affermavano, in proposito: “ Chiunque venga appeso al palo, è maledetto da Dio “ (Deut. 21, 23) e l’orrore e l’infamia di tale tipo di morte passò poi al popolo fratello “arabo islamico”  (Versetti 55 della III Sura e 157 della IV Sura, entrambe medinesi). Per i Giudei, il fatto che Gesù fosse crocifisso, avrebbe attratto su di Lui la maledizione divina e avrebbe distrutto la Suafama messianica. La croce era composta del palo verticale, lo stipes e di quello orizzontale, il patibulum.

La croce di Gesù era piuttosto alta e i piedi erano a circa un metro da terra.

Dopo la condanna, Gesù iniziò il suo viaggio al Calvario, portando su di sé l’elemento orizzontale della croce, il patibulume un cartello, una tavoletta imbiancata a calce, il titulus, contenente la causa poenae, cioè la motivazione della condanna.

Ben presto, i soldati chiesero a un uomo che sopraggiungeva dalla campagna, Simone di Cirene, di portare lui stesso il patibulum, liberando l’esausto Gesù.  Anche qui, i soldati romani vengono, a loro modo, in soccorso di Gesù e gli esprimono così la loro Pietas.

Nel titulus che sarebbe stato infisso nella parte alta della croce, c’era la scritta: “ Gesù di Nazareth, Re dei Giudei” in tre lingue aramaico, latino e greco, quest’ultimo scritto da Pilato per irritare gli Ebrei che infatti ne chiesero la modifica ma Pilato, stavolta, fu inflessibile e mandò subito via i Sinedriti.

Nel caso di Gesù, la “passeggiata” con la croce sotto lo sguardo dei gerosolimitani, fu accompagnata da una moltitudine di persone afflitte che si lamentavano e lo piangevano, come dice Luca (Luca 23, 27). I soldati si spartirono, per antica usanza, le vesti di Gesù, ma la camicia o chitone, tessuta in un solo pezzo, se la giocarono a sorte.

Soprattutto i membri del Sinedrio si abbandonarono a sarcasmi spietaticontro il condannato che rifiutò la bevanda a base distupefacente, vino e mirra che gli avevano offerto, giunto alluogo del supplizio, delle donne ebree.

Luca tramanda tre frasi che Gesù pronunciò sulla croce: la richiesta di perdono al Padre per quelli che l’avevano condannato e crocifisso, la promessa del paradiso al ladrone pentito, e il grido della morte: “ Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito” (Luca 23, 34 – 46). Poi bevve la posca  la bevanda leggermente acida, gradevolmente dissetante, contenente acqua e aceto, in voga a Roma e presso i militari, che dissetava e aveva un potere disinfettante, che i soldati gli diedero, come espressione di Pietas, per placare la sua sete. Poi esclamò: “ Tutto è compiuto” (Giovanni 19, 26).

La morte, che sopraggiunse per molteplici fattori come fatica, dolore, schock, disidratazione, asfissia meccanica da crocifissione e, in ultimo, un’ischemia cardiaca terminale, fu seguita dall’oscuramento del sole, da mezzogiorno alle tre, le ore più luminose della giornata e da terremoto (Matteo 27, 54 e Luca 23, 47) e dalle commosse parole del centurione che comandava il reparto e che aveva seguito tutta l’agonia: “ Veramente quest’uomo era Figlio di Dio !” (Marco 15, 39), il primo convertito ai piedi della croce e uno dei primi gentili che riconobbe la divinità di Cristo. 

Ma vi fu un altro fenomeno che accompagnò quella morte e quella sequenza di fatti straordinari e che si ricollega misteriosamente, all’incipit del processo giudaico, cioè allevesti che lo stesso Caifa si era strappato all’udire la “confessione” di Gesù, vale a dire la lacerazione del velo del tempio.(18)

Questo era il “velo”, in realtà una sorta di tenda robustissima che nemmeno due cavalli legati alla stessa, sarebbero riusciti a strappare,come ricordava Giuseppe Flavio. Questo telo, chiamato Parokhet separava il Santo dei Santi dall’area delimitata da un altro velo. Nell’area delimitata dal Parokhet poteva entrare solo il Sommo Sacerdote una volta all’anno, nel Giorno dell’Espiazione.

Questa rottura avviene nel momento della morte di Gesù, cioè in quello in cui la condanna è stata compiuta, insieme a una serie di eventi terribili, di natura “teofanica”, quali il terremoto, una sorta di eclissi e la risurrezione di corpi sepolti. Il telo si squarciò in due, dall’alto in basso (Mt 27,51 e MC 15,38). Il velo si frapponeva tra il luogo dov’era l’alleanza e quello dell’offerta(19).

Se a questo si aggiungonole terribili devastazioni che il Tempio di Gerusalemme avrebbe subito nell’assedio delle legioni di Tito, culminato il 9 agosto del 70 d.C. con la distruzione del Tempio stesso e della classe sacerdotale ebraicae con la scomparsa dell’Arca dell’Alleanza, ci si rende conto che la morte in croce di Gesù ha comportato il crollo materiale di tutte le istituzioni che accompagnarono la stipula del patto sinaitico: il sacerdozio a cui spetta il rito del sacrificio, fondato sul sangue delle vittime animali, versato in parte sull’altare e in parte a beneficio del popolo che ne viene asperso; l’Arca dell’Alleanza nella quale sono disposte le “tavole della testimonianza” e che è il memoriale dell’Alleanza e il segno della presenza di Dio in Israele (Es. 25, 10-22; Num. 10, 33-36) e, infine, la tenda che è la prefigurazione del Tempio, luogo d’incontro tra YHWH e il suo popolo che ha accettato tutte le clausole del patto: “ Tutto ciò che YHWH ha detto, noi lo osserveremo” (Esodo, 19, 7-8). I contraenti sono infatti YHWH, da una parte e il popolo dall’altra.

Mi ero prefissato di analizzare i processi a Gesù da un punto di vista giuridico – processuale e qui mi fermo.

Vi ringrazio.

Giuliano Mignini per Agenzia Stampa Italia

        

        

        

 Note :

1), in www.storiain.net > storia > la s.

2) (G. RICCIOTTI, Storia d’Israele, Torino, SEI, 1933, 2° vol., p. 384)

3) vds,  L. C. FILLION, Vie de N. S. Jésus Christ, Parigi, 1925; M. J. LAGRANGE, Evangileselon St.Luc, III ed., Parigi, 1927; ID., Evangileselon St. Jean, V ed., Parigi, 1936; ID.,  Le JudaismeavantJésus Christ, III ed., Parigi, 1931; G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Roma, 1941; ID., Storia d’Israele, Torino, 1933; M. SORDI, Aspetti romani dei processi di Gesù e diStefano, in RFIstclass, 98, 1970; ID., I cristiani e l’Impero romano, Milano, 1986; ID., Cristianesimo e Roma, Bologna, 1965; P. PAJARDI, Il processo di Gesù, Milano, 1994.

4) (si veda GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, XVIII, 3, 1; Guerra Giudaica, II, 9, 2-3

5) [cfr. Aldo Schiavone: Ponzio Pilato – ed- Einaudi 2016, pag. 18]

6) Questi dati sulla presenza militare romana li ho tratti da “IL LEGIONARIO Commentarius del soldato romano, Notiziario dell’associazione ROMARS, Anno VII n. 66_Aprile 2020.

7) “Wars between the Jews and Romans sulivius.org URL, cit in nota 3 su Wikipedia, alla voce “Simon Bar Kokheba”.

8) Gershom Scholem, “Donmeh”, Encyclopaedia Judaica, 2nd ed., Vol. 5, Coh – Doz, Macmillan Reference USA, Thomson Gale, 2007, ISBN – 02-865933-3, p. 72, cit. in WikipediaMustafa Kemal Ataturk.

9)) si veda “Messianismi paralleli: gli ebrei Lubavitcher e i neocatecumenali”, di Sandro Magister, http//chiesa espresso.repubblica.it

10) “Il concetto di persona nella dottrina di Dio”, Santità Joseph Ratzinger, “Dogma e predicazione”, 1973, 2005, terza ed. Queriniana, da p. 173 a p. 189. Il termine “persona”, totalmente estraneo all’ebraismo, compare, nel cristianesimo, per la prima volta nella Seconda Lettera ai Corinzi, di Paolo di Tarso (Seconda Lettera ai Corinzi, 1,11). 

11) vds. https://www.studibiblici.it> appunti.

12), Piero Pajardi, “Il processo di Gesù”, Giuffrè editore, Milano, 1994, p. 42.

13) Pajardi, op. cit. p. 90.

14) Giov. 11, 45.

15) Giov. 11, 47 – 53.

16) Giov. 18, 21.

17), si veda, Piero Pajardi, op. cit., p. 108. Sulla prassi liberatoria, vi è un precedente, cioè quello del procedimento svoltosi dinanzi a Settimio Vegeto, governatore d’Egitto nell’86 d. C. che decide di non esprimere alcuna sentenza, lasciando l’imputato al giudizio della folla. Si veda “Studi sul cristianesimo primitivo”, “Il processo a Gesù”Tesi di laurea di Daniela Annunziata. “Talitàkum, 2., cristianesimoprimitivo.forumfree.it.

18) Il Timone, News 18 aprile 2014, “La morte di Gesù e il mistero del velo del Tempio che si squarciò nel mezzo”, di Rino Cammilleri (da Il Timone, gennaio 2014), iltimone.org/news-ti”.

19) www.toscanaoggi.it>Rubriche

 

Fonte foto: Mihaly Munkácsy, Public domain, via Wikimedia Commons.

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