Tibet. Celebrati 70 anni di 'pacifica liberazione', dati incoraggianti per lo sviluppo della regione

palace 6469748 1920(ASI) Dopo la visita del presidente Xi Jinping a luglio, la scorsa settimana il Tibet ha celebrato il settantesimo anniversario di quella che in Cina viene ricordata come la «liberazione pacifica» della regione. Per l'occasione, giovedì, Lhasa ha ospitato una grande manifestazione per festeggiare la ricorrenza, in un clima di festa che si è protratto anche nei giorni successivi.

La piazza di fronte al Palazzo del Potala, patrimonio dell'umanità dal 1994, si è così riempita di decine di migliaia di partecipanti, tra cui rappresentanti delle comunità locali, studenti e ufficiali in uno scenario caratterizzato da raffigurazioni e slogan fortemente patriottici che sembrano cementare in modo sempre più indissolubile i destini di Pechino e Lhasa.

La Regione Autonoma del Tibet resta ad oggi la suddivisione amministrativa della Cina con i più alti indicatori di crescita economica. Come certificato dai dati pubblicati dal Dipartimento regionale di statistica alla fine dello scorso luglio, il PIL tibetano è arrivato a 92,61 miliardi di yuan, circa 12,07 miliardi di euro, nei soli primi sei mesi di quest'anno, pari al 9,1% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.

Proprio nel 2020, anno della pandemia, con un PIL complessivo di 190 miliardi di yuan (29,2 miliardi di dollari), l'economia del Tibet è cresciuta del 7,8%, un dato nettamente superiore a quello nazionale, fermo al 2,3% (contro il 6% del 2019) a causa delle restrizioni e delle limitazioni adottate dal governo dopo lo scoppio della prima epidemia a Wuhan.

Nonostante l'emergenza sanitaria globale, i circa 3,5 milioni di cittadini tibetani hanno visto il loro reddito disponibile pro-capite aumentare del 10% nelle aree urbane e del 12,7% nelle aree rurali. Nella conferenza stampa di inizio anno, il governatore regionale Che Dhala ha inoltre indicato gli obiettivi per il 2021: crescita del PIL al 9%; incremento del reddito disponibile del 10% nelle aree urbane e del 13% nelle aree rurali; creazione di 50.000 nuovi posti di lavoro nelle aree urbane; contenimento del tasso di disoccupazione al 5,5% circa.

Sebbene molto meno rumorose rispetto al passato, sullo sfondo, soprattutto a livello internazionale, restano le dure critiche e le letture contrastanti per quella che nei Paesi occidentali e in India viene ancora oggi descritta dal mainstream come un'invasione o un'annessione forzata di una regione caratterizzata da un'identità considerata etnicamente, culturalmente e politicamente ben distinta dal resto della Cina.

In realtà non è proprio così, specie se consideriamo che il concetto di Stato nazionale, sviluppatosi nel contesto della modernità occidentale, non è facilmente applicabile in Asia (e nemmeno in Russia). Non a caso, l'ultimo libro bianco sul Tibet, pubblicato lo scorso maggio dal governo cinese, sottolinea come i tibetani rappresentino una delle 55 minoranze etniche riconosciute dalla Repubblica Popolare Cinese e che «i popoli ancestrali dell'Altopiano tibetano hanno intessuto relazioni di sangue, lingua e cultura con gli Han ed altri gruppi etnici».

Più che un'annessione pura e semplice, l'Accordo dei 17 punti firmato dalle delegazioni di Pechino e del Dalai Lama il 23 maggio 1951 sancì infatti il ritorno della regione sotto la sovranità cinese, come già era stato per secoli, direttamente o indirettamente, sin dai tempi della Dinastia Yuan (1271-1368), quando il sovrano Kublai Khan, nipote di Gengis Khan, fece del territorio cinese il più vasto impero del suo tempo. Sotto la Dinastia Qing (1644-1912), in particolare a partire dal 1720, quando l'Imperatore Kangxi inviò una spedizione nella regione per respingere l'invasione degli Zungari e consentire al 7° Dalai Lama di insediarsi al trono, il Tibet si configurò per lungo tempo come un protettorato cinese (Ganden Phodrang).

Di invasione si può parlare piuttosto nel caso dei numerosi tentativi di penetrazione britannici, culminati con la spedizione guidata da Francis Younghusband tra il 1903 e il 1904, per altro caratterizzata da particolari efferatezze come il massacro di centinaia di soldati e monaci tibetani nei pressi del villaggio di Guru, lungo la strada per Gyantse.

Il particolare clima di destabilizzazione che interessò la Cina dalla fine del XIX secolo sino alle spedizioni del Nord del 1926-'28, fece temporaneamente del Tibet una realtà quasi-indipendente di fatto ma non di diritto, dal momento che il sistema di potere del Ganden Phodrang, fondato dal V Dalai Lama nel 1642, e il Trattato Sino-Britannico del 1906, che riaffermava la sovranità cinese sul Tibet, rimanevano formalmente in vigore malgrado la Cina imperiale fosse decaduta. Il governo del Kuomintang aveva infatti più volte ribadito, inserendolo già nella Costituzione Provvisoria del 1931, che il «territorio della Repubblica di Cina si compone di varie province, della Mongolia e del Tibet» [Art. 1, Cap. 1 - Principi Generali].

La rivolta, nel marzo 1959, di una parte dei monaci e delle forze armate locali, supportate dalle intelligence di Stati Uniti ed India, ruppe dunque gli equilibri faticosamente ricostruiti nella Cina Occidentale dopo il 1949. Appena salito al potere, infatti, il Partito Comunista Cinese (PCC) raccolse le redini di un Paese quasi interamente dilaniato da un secolo di guerre, invasioni, colonizzazioni e decadenza politica, cui il sistema repubblicano del Kuomintang non era riuscito a porre concretamente rimedio.

Sconfitto il tentativo insurrezionale sostenuto dal XIV Dalai Lama e delle milizie a lui fedeli, che abbandonarono il Tibet creando un governo in esilio in India, Pechino istituì un Comitato preparatorio finalizzato alla costituzione di una nuova regione autonoma. La libertà di culto e la conservazione dei beni storico-culturali, minacciate durante la Rivoluzione culturale (1966-1976), tornarono ad essere garantite sotto la leadership di Deng Xiaoping. Da allora, Pechino ha sostanzialmente assecondato la vasta opera di recupero e ripristino del Buddhismo tibetano promossa dal X Panchen Lama, tulku della scuola Gelug, fino alla sua morte nel 1989.

Come sottolinea il governo cinese nell'ultimo libro bianco sulla regione, pubblicato a maggio, tre sono le tappe ritenute fondamentali nella storia del nuovo Tibet: la riforma democratica del 1951, che abolì il sistema feudale e teocratico di schiavitù; la costruzione del sistema socialista e dell'autonomia regionale a partire dal 1965; l'introduzione su scala regionale delle politiche di riforma e apertura avviate nel 1978, che hanno permesso ai tibetani di sviluppare una vera economia locale e di migliorare le proprie condizioni di vita. A questo proposito, il governo ha evidenziato l'importanza dell'eliminazione della povertà assoluta, un traguardo raggiunto due anni fa, quando gli ultimi 628.000 abitanti e le ultime 74 contee tibetane sono state ufficialmente rimosse dall'elenco delle aree povere della regione.

«Ormai è dimostrato che senza il Partito Comunista Cinese, non ci sarebbe un nuovo Tibet», ha sottolineato durante le celebrazioni della scorsa settimana Wu Yingjie, segretario regionale del PCC, mettendo in luce il contrasto tra il vecchio Tibet, feudale, povero, arretrato e privo di infrastrutture, e quello costruito dopo il 1951, indubbiamente più prospero, avanzato e ormai raggiunto anche da aerei e treni ad alta velocità, che consentono ogni anno a milioni di turisti di ammirarne le bellezze. La dicotomia tra questi due volti del Tibet, che tiene insieme le ragioni della difesa dell'integrità territoriale con altre motivazioni di carattere economico-sociale, spiega perfettamente l'inammissibilità, agli occhi dello Stato cinese, di qualsiasi interpretazione politica delle tradizioni religiose presenti nel Paese.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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