(ASI) Nel corso della sua evoluzione la tutela risarcitoria dei congiunti delle “vittime primarie” ha dovuto fare i conti con diversi filtri selettivi che sono andati progressivamente a sgretolarsi soltanto a partire dagli anni Ottanta del secolo appena trascorso.
Come analizzato acutamente, nel suo pregevole lavoro, Marco Bona sostiene, in particolare, i principali impedimenti al risarcimento dei danni subiti iure proprio dai familiari del deceduto o del parente sopravvissuto con lesioni personali, si sono riscontrati soprattutto sul versante del nesso di causa e sul piano delle restrizioni alla risarcibilità dei danni non patrimoniali: due ambiti solo apparentemente tra loro disgiunti.
Invero all’origine del percorso italiano della tutela risarcitoria dei familiari tali impedimenti non si presentarono, anzi proprio in Italia già agli inizi dell’ 800, Melchiorre Gioia elaborò un sistema risarcitorio per i congiunti decisamente aperto e privo di particolari limitazioni, sostanzialmente analogo a quella che soltanto negli ultimi decenni, dopo una lunghissima gestazione, siamo pervenuti ad apprestare in Italia.
Nel suo manoscritto “Dell’ingiuria dei danni, del soddisfacimento e relative basi di stima avanti i Tribunali civili”, pubblicato per la prima volta nel 1821, egli pose alla base del suo originalissimo sistema risarcitorio i “sentimenti, la felicità, i desideri, i piaceri personali, le affezioni, il benessere, i dolori, la tristezza ed i dispiaceri e più in generale, le alterazioni dell’animo e dell’esistenza morale dell’individuo offeso”, cioè un concetto di persona da tutelare notevolmente ampio e moderno nella sua latitudine, non solo riferito all’esistenza fisica, ma anche e soprattutto a quella morale.
L’offesa della persona era interamente concepita come una “distruzione di valori sociali”, ossia un “cambiamento di valori in passività”.
Da questa modernissima visione della conseguenze delle offese alle persone il Gioia affermò la necessità di accordare risarcimenti che tenessero conto di “ogni diminuzione cagionata nel nostro benessere e che giusta il corso ordinario delle cose, non sarebbe successa”, intendendo per benessere in primis quello morale ed esistenziale.
Per Gioia l’integralità del soddisfacimento postulava che lo stesso andasse ad integrare anche i pregiudizi non pecuniari.
In questo contesto il Gioia perorò altresì, l’esigenza di attribuire un soddisfacimento anche per i dolori della famiglia, distinguendo molto nitidamente tra due ipotesi: ferimento del congiunto e uccisione del familiare, fattispecie peraltro entrambe ritenute tali da poter dare luogo a pretese risarcitorie da parte dei congiunti della vittima principale.
Per il Gioia tutti questi “dolori morali”, essendo veri e propri “furti di felicità e alterazioni dell’animo”, non potevano che essere suscettibili di soddisfacimento, da rapportarsi alla loro durata ed intensità.
Va evidenziato come il Gioia fondasse l’azionabilità di queste domande risarcitorie sulla base non già della sussistenza, tra vittime principali e vittime secondarie, di un vincolo giuridico, cioè diritti e doveri reciproci, bensì di un vincolo familiare affettivo, impostazione che la nostra giurisprudenza è pervenuta a condividere in via ampiamente maggioritaria soltanto negli ultimi decenni.
Gli insegnamenti del Gioia che non era né un accademico, né un giurista, risultarono però del tutto indifferenti alla parte più retriva della dottrina giuridica italiana e caddero poi nel dimenticatoio nel corso del Novecento.
Ed infatti a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, su impulso innanzitutto dell’accademico e Senatore del Regno, Carlo Gabba, si affermò la tesi nettamente contraria al risarcimento dei pregiudizi non pecuniari ed alle concezioni giusnaturalistiche del Melchiorre Gioia.
La tesi del Gabba si fondava soprattutto su remore di ordine etico, per cui la monetizzazione dei pregiudizi morali fu bollata alla stregua di un’autentica aberrazione, una sorta di diritto barbarico contrapposto al diritto romano.
Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia