Anche la Sicilia violentata dalle “Marocchinate”. Una vergogna che non ha conosciuto confini

(ASI)  In queste ultime settimane la nota vicenda delle “Marocchinate” venuta fuori negli articoli della stampa locale della provincia di Frosinone e Latina, attraverso i social che stanno allargando la voce, nei dibattiti pubblici, sembra davvero aver toccato le coscienze delle persone.

Questo grazie ancora al grande lavoro profuso negli anni da Emiliano Ciotti coadiuvato dall’assistenza legale dell’avvocato Luciano Randazzo, i quali hanno presentato nelle settimane scorse, come si ricorderà, una denuncia contro la Francia per crimini di guerra. Inoltre lo scrivente attraverso i suoi articoli, la sua battaglia, nel suo piccoli sta divulgando questa pagina orrenda a coloro che ancora non sapevano cosa fossero le “marocchinate”. E non ci fermeremo qui perché questa vicenda ha diritto ad una risposta che manca da troppi decenni. Per fare un attimo il discorso a ritroso per coloro che non sanno cosa sia il termine di “Marocchinate”, è usato per indicare uno stupro di massa messo in atto dai Goumier francesi, il C.E.F. (Corps Expéditionnaire Francais) inquadrati nel corpo di spedizione francese in Italia durante la campagna d'Italia della seconda guerra mondiale. Il termine Goumier (da “goum”, traslitterazione francese in “qum” che indica un clan, una banda). Questo corpo non diventò tristemente famoso solo nelle province di Frosinone e Latina, le più colpite, sino ad arrivare in Toscana nell’Isola d’Elba; ma la loro furia fatta di stupri, di saccheggi toccarono la splendida Sicilia. Nell’isola siciliana fu l’inizio di tutto. Con lo sbarco della Sicilia meridionale, dove oltre agli eserciti degli alleati, non sbarcarono solo soldati ma sbarcarono e ne sono piene le cronache, anche i boss della mafia che provenivano per lo più da New York che appartenevano alle più potenti famiglie italoamericane.

Dalle notizie in nostro possesso e dopo attenta ricerca, i primi “goumier” che toccarono il suolo italiano furono oltre 800 marocchini sotto comando di ufficiali francesi che, nel luglio 1943, sbarcarono vicino Licata, nel settore assegnato agli statunitensi.

Questi appartenevano alla “Joss Force” cui era stato affidato il compito di impadronirsi del porto della cittadina rivierasca, per poi difendere il fianco sinistro della 7° armata comandata dal Generale Patton da eventuali contrattacchi. I primi atti efferati dopo lo sbarco, si sono registrati lungo la statale Licata-Gela per proseguire poi fino al paese di Capizzi, tra Nicosia e Troina. Qui iniziarono i primi stupri di massa, mettendo in atto il loro copione fatto di barbarie. Testimonianze a riguardo riferiscono di veri e propri sequestri di persona, perlopiù ragazze italiane. Questi soldati dopo le violenze, le consideravano come bottino di guerra e come prostitute, portandole via sghignazzando non curandosi degli atroci dolori.

La notizia dei primi stupri si diffuse rapidamente. La popolazione cercò di difendersi come meglio poteva dalla furia bestiale dei marocchini. In alcune ricerche documentate ci sono stati episodi di vendetta della popolazione siciliana contro questi soldati. Molti di loro vennero trovati uccisi a roncolate o a colpi di fucile. Molti altri vennero evirati, dati in pasto ai maiali o sbudellati.

Durante il loro passaggio nei territori siciliani, diversi gli episodi di violenza carnale. Essi furono abbastanza circoscritti, sia per la forza limitata dei “goumier” che per la pronta reazione della popolazione siciliana, prendendo le dovute precauzioni nascondendo le donne nei pozzi, nei pagliai e in altri rifugi occasionali.

 

Proprio a Capizzi, gli abitanti uccisero una quindicina di marocchini e, dopo il fatto, i comandi militari si guardarono bene dall’intervenire.  Tra le tante testimonianze, un anziano ha detto: “Facevano i comodi loro, violentavano le donne, ma gliela facevamo pagare”.

 

Come in altri territori italiani divenuti famosi per questa vergognosa vicenda, anche in Sicilia avvenne un vero e proprio occultamento della verità storica compiuto sull'invasione alleata nella Seconda guerra mondiale, spacciata come una marcia trionfale. Mentre è stata una marcia di morte, di vittime innocenti. Sui crimini del Meridione si è fatta un po’ di luce negli ultimi anni. Tanto ancora deve emergere affinché venga a galla tutta la verità. E le notizie delle ultime settimane stanno dando luce in questa direzione. Nei giorni successivi allo sbarco del 10 luglio 1943, gli Alleati si mostrarono ben altro che "liberatori", scrivendo una pagina infamante e vergognosa di storia.

Il segno lasciato da queste violenze perpetrate dai franco-africani ai danni della popolazione è impossibile da dimenticare, specialmente per le donne, uomini, bambini di alcuni paesi come Capizzi, un Comune del messine sui Nebrodi.

Durante l'operazione Husky, il paese visse la sua guerra privata nei giorni che seguirono il 19 luglio del 1943, che vide la 15ª divisione Panzergrenadie del generale Rodt ritirarsi lungo la "linea dell'Etna". Qui si svolse l’orrenda battaglia di Troina. Questa ritirata lasciò Capizzi in balia dell'occupazione dei reparti del corpo di spedizione francese in Italia sotto il comando del generale francese Alphonse Juin. Queste truppe erano un miscuglio di marocchini di etnia berbera, senegalesi, algerini, montanari analfabeti del Maghreb. I primi sbarcarono vicino Licata. Quando a settembre vennero rimpatriati, furono accolti come eroi nazionali per le vittorie riportate in Sicilia. Il Generale Juin per enfatizzare ancora più i crimini siciliani, disse addirittura che a Capizzi i marocchini erano entrati “in mezzo alla generale allegria della popolazione”. Meglio tacere.  

La storia è ben diversa purtroppo. A Capizzi i soldati del C.E.F. accampatisi al Piano della Fiera e a Monte Rosso, fermavano i civili che rientravano in paese derubandoli di portafogli, orologi, oggetti d'oro.

Un’altra testimonianza rappresenta bene il periodo: “gli Inglesi portarono in Sicilia i marocchini “perché dicevano che in Sicilia semu sarbaggi, perciò ci volevano selvaggi come noi. I marocchini erano di bassa statura e color marrone in faccia, vestiti con una coperta lunga (barracano), avevano capelli lunghi e intrecciati, portavano turbanti, non avevano calze, ai piedi portavano gli zoccoli. Gli Inglesi non ci difendevano, e così i Capizzuoti ne ammazzarono tanti di marocchini, a colpi di bastone e con le roncole. Tanto danno facemmo loro, più di quanto loro non ne fecero a noi con le loro marocchinate. I marocchini venivano nelle masserie a truppa e facevano i comodi loro. Le donne di tre famiglie le violentarono. Madri, zie, cognate, sorelle e figlie, tenendo gli uomini in ostaggio. Una ragazza di 16 anni violentata mentre era andata sola a prendere l'acqua alla sorgente. Ma i Capizzuoti non se la tenevano e fecero un'imboscata nel bosco. Una volta, al pascolo nel bosco trovai un elmetto, incuriosito mi avvicinai e dentro ci trovai la testa di un marocchino a cui l'avevano tagliata con l'ascia. Quella fu la guerra della città di Capizzi contro il liberatori, i vinnignammu (facemmo vendemmia di loro) con una guerriglia”.

Un’altra testimonianza di un anziano siciliano dice che: “Questi soldati venivano a gruppi sui muli ed erano neri, s'amnmuccavunu zoccu capitava, magari i fimmini, certu, masculi erunu! (dal dialetto siciliano all’italiano: Prendevano e mangiavano ciò che capitava, anche le femmine, certo, erano maschi!). Ma erano selvaggi e i fimmini i marturiavunu (le donne le martirizzavano). Una volta maritu e mugghieri ammazzàru un marucchinu insieme. Se in una masseria c'erano due, tre femmine, le stupravano tutte”.

Questi racconti, testimonianze ricordano tanto quelle ciociare. Spesso reticenti, la vergogna nei ricordi di queste persone è tanta. Questi stupri si ricordano volentieri e si ricorre a metafore come nella testimonianza di un'anziana che dice: “Nel caseggiato dove mio padre allevava la mandria, io ero la più grande dopo mia madre e successe quello che volle Dio”.

Ma di queste donne stuprate, nubili o coniugate, quale fu il loro destino? Molte di loro non furono ripudiate e le nubili si sposarono quasi tutte. Molti dei figli che arrivarono nelle gravidanze furono tenuti. Molti uomini capirono che quelle donne non potevano essere abbandonate. Perché la loro intimità violata non è stata un capriccio, ma una violenza inaudita. Un comportamento quello del maschio siculo da elogiare, perché in circostanze come queste non è da tutti avere comportamenti solidali. Come il coraggio delle donne di Capizzi e di tanti altri paesi siciliani, che hanno convissuto con questa umiliazione e questo dolore nell’animo portando alto il senso dell’appartenenza di donne, di mogli e madri.

Davide Caluppi Agenzia Stampa Italia

                                                                                                                            

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