(ASI) Perugia - Negli ultimi anni il danno morale è stato protagonista di una lenta ma inesorabile, evoluzione. Come sempre accade in questo tipo di progressione, la dottrina, la giurisprudenza e la pratica hanno svolto un ruolo fondamentale mentre il legislatore, forse ben consapevole delle difficoltà e delle finezze necessarie per sbrogliare l’intricata matassa, ha pensato bene di non mettere mano all’aratro parlamentare.
A dare inizio a questo itinerario è stata sicuramente la nuova lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2059 del codice civile. Fino a quel momento, il danno morale era inteso come sofferenza interiore, transeunte o permanente, cagionata da un fatto che la legge inquadrava come reato. L’articolo 2059, infatti, dichiarava risarcibile (come tuttora) il danno risarcibile, “solo nei casi determinati dalla legge”. Sennonché, per gli interpreti dell’epoca, solo l’art. 185 del codice penale sembrava essere in grado di assolvere al richiamo di legge, dalla quale far discendere il diritto al risarcimento non patrimoniale. In poche parole, chi si lamentava di aver subito un danno non direttamente computabile come perdita economica-monetaria, come ad esempio l’offesa all’onore, alla salute, al buon nome, doveva dimostrare di essere vittima di un reato, altrimenti la sua domanda non poteva essere ammessa dal giudice. Alcuni brevissimi cenni storici ci possono aiutare a comprendere meglio la questione.
Sotto la vigenza del vecchio codice di procedura penale, il giudice era anche quello che istruiva il processo, che svolgeva le indagini e che doveva accertare la verità materiale dei fatti-reato. In questo clima processuale, il giudice civile, che si vedeva rivolgere una richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, doveva attendere l’esito del processo penale e verificare che i fatti posti a base della domanda civile costituissero reato. Solo in caso di estinzione del reato o della pena, come ad esempio per prescrizione, amnistia, indulto, grazie, perdono giudiziale, il giudice civile poteva spingersi ad accertare l’esistenza del fatto per ammetterne il risarcimento. Oggetto della sua indagine processuale non era, ovviamente, il reato in concreto, non avendone egli i poteri, ma il fatto.
Il nuovo codice di procedura penale ha mutato completamente lo scenario. La sentenza penale non è più pregiudiziale all’accertamento civile ed il danneggiato può, anche qualora il giudizio penale non sia iniziato, tentare di provare il fatto ed il conseguente danno, davanti alla giurisdizione civile, anche, ovviamente, per i danni non patrimoniali. Basti pensare a quello che quotidianamente accade in occasione dei sinistri stradali quando il danneggiato riporta lesioni personali. Quest’ultimo non deve attendere l’esito della sua querela, per poter proporre il risarcimento del danno, ma dovrà dimostrare che dal fatto, astrattamente idoneo ad integrare una fattispecie di reato, gli sia derivato un danno che merita un ristoro.
E se il danno morale mi deriva da un fatto che non può essere inquadrato in alcuna fattispecie penale? Possiamo certamente affermare che questo pregiudizio merita di essere risarcito ma il riconoscimento di tale voce di danno è il frutto di un cammino durato decenni e di cui parleremo nei prossimi articoli.
Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia
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