(ASI) Perugia - Tra le ipotesi di risarcimento che hanno avuto un percorso travagliato possiamo annoverare, senz’altro, quello dovuto alla perdita del nascituro ed alla soppressione di embrioni.
Già nel 1959 la Cassazione riconosceva il danno morale alla madre che, in seguito ad un’ipotesi di reato, perdeva il frutto del grembo prima del parto. Il problema si pose per tutte quelle vicende che non originavano da un fatto penalmente rilevante. Prima, infatti, dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del codice civile, il danno non patrimoniale poteva essere risarcito solo in casi previsti espressamente dalla legge, venendo così a limitare fortemente le richieste di ristoro. Cosa succedeva se, per colpa contrattuale od extra contrattuale, un genitore vedeva interrotta la propria gravidanza? Il pregiudizio non era indennizzabile con i criteri moderni del danno esistenziale o biologico. Solo nel 1988, con una sentenza del Tribunale di Napoli, la giurisprudenza inizia un percorso che porterà alla piena risarcibilità dei casi in esame, fino ad arrivare all’allargamento dei parenti aventi diritto al ristoro. Si trattava, infatti, di riconoscere valore a dei pregiudizî non pecuniarî direttamente riconducibili, ex art. 1223, alla perdita del concepito o a quella dell’embrione. Il lungo cammino avrebbe portato a riconoscere la natura di danno non patrimoniale, nelle sue componenti di danno permanente, fondato da un evento attuale con conseguenze future (esistenza senza quel figlio e, magari, con l’impossibilità di averne un altro) e di danno da lutto, connotato dall’immenso dolore per una vita spezzata, per un esserino che non verrà alla luce. Torniamo alla storia del percorso che ha portato fino ai giorni nostri. Il Tribunale partenopeo nega il risarcimento al marito di una donna incinta di quattro mesi che muore dopo essere stata investita da una vettura. I giudici ritengono di non poter aderire alle istanze avanzate perché il feto non è venuto alla luce e , quindi, non ha potuto lasciare in eredità il risarcimento dei suoi danni. Negano anche il danno morale al padre ma, ecco la novità, non perché non sia dovuto in astratto, ma perché, nel caso concreto l’investitore veniva condannato per colpa presunta e non era pertanto applicabile il combinato disposto dell’art. 2059 del codice civile e del 185 codice penale. I togati napoletani riconoscevano implicitamente che, in altre circostanze, il marito avrebbe potuto accedere alla soddisfazione richiesta. Nel 1993 la Corte di Cassazione, in un obiter dictum, sostiene anch’essa che, permanendo il divieto di risarcire per diritto successorio, nulla osterebbe alla concessione del danno non patrimoniale ai genitori. A questo punto la strada è aperta. Il Tribunale di Verona, nel 1993, nella causa Nardantonio contro Usl 21 Regione Veneto, condanna la struttura sanitaria a risarcire il danno morale sofferto dalla madre in due tronconi, sia per la sofferenza subita dalla gestante durante le operazioni necessitate dall’errore medico, sia per la perdita del nascituro. Gli interpreti della sentenza iniziano a riflettere sulla configurazione del danno esistenziale, in quanto appare di tutta evidenza che il pregiudizio, in casi come questo, vada a ledere non solo diritti costituzionalmente garantiti o previsti da leggi di rango minore, ma non necessiti, per il suo contrasto, di fatti che costituiscano reato. Da qui in poi, permanendo ancora la vecchia concezione dell’art. 2059, i giudici iniziano ad aggirare l’ostacolo riconoscendo ristoro ai danni esistenziali e ad allargare la platea dei danneggiati al padre e a i nonni. Arrivando ai giorni nostri o quasi, possiamo citare la sentenza del Tribunale di Varese, del 2012, che riconosce nei confronti sia del padre sia della madre il danno non patrimoniale per la loro sofferenza morale e per la perduta possibilità di programmare ed attuare lo sviluppo della famiglia.
Avv. Francesco Maiorca – Agenzia Stampa Italia