Contro il terrorismo una nuova geopolitica e una nuova cultura per l’Europa

(ASI) Ancora un altro attentato? Si, ancora un altro! E dove è andata in scena la follia omicida? Ancora a Parigi? A Roma? A Berlino?... No, a Bruxelles! Purtroppo questa è la tragica realtà. Martedì 22 marzo le mani della nera bandiera dell’I.S.I.S. hanno azionato l’esplosivo che i jihadisti portavano con essi. Falciando vite, straziando carni, disintegrando uomini e donne con l’unica colpa di trovarsi all’aeroporto di Bruxelles-National e alla stazione della metropolitana di Maelbeek, in quei orribili momenti.

Trentacinque le vittimi accertate, tra cui una donna italiana Patricia Rizzo, anche questa volta come nel novembre scorso era toccata uguale sorte alla giovane studentessa italiana Valeria Solesin, morta sotto i colpi delle armi degli attentatori islamisti a Parigi.

Ormai sembra quasi una “non novità”. Questa condizione di pericolo di attentato, sembra intraprendere un processo di normalizzazione con la quale l’unica soluzione appare essere il “saperci convivere”.

“Bisogna farsene una ragione...”: questo sembrano proferire gli atteggiamenti incerti della politica istituzionale dell’Unione Europea.

Si vive una fase di attesa continua. “Parigi, Bruxelles, domani a chi?” Per quanto l’establishment europea si sforzi di “rassicurare” i cittadini, la realtà è che nessuno sa cosa fare, o meglio, nessuno vuole realmente fare ciò che deve essere fatto!

Nonostante i nuovi morti c’è chi come il Presidente del Consiglio Matteo Renzi che afferma essere «...inutile erigere muri, i terroristi sono già dentro». Alludendo a quelli che lui giudica come esempi negativi, quali l’Ungheria di Viktor Orbán, e tuonando contro chi prova ad alzare la voce verso un’immigrazione incontrollata, bollandolo “sciacallo e speculatore”.

I terroristi sono già dentro? E chi li ha fatti entrare allora? Quello che è accaduto a Parigi a novembre, e quanto è accaduto questo 22 marzo a Bruxelles, dimostra incontrastabilmente il pericolo della società multiculturale.
Si è detto, giustamente, che gli attentatori in tutte le vicende, erano per la maggiore cittadini europei. Dunque da ciò si apre un’altra questione: il tema della cittadinanza. Anni di favorimento dell’immigrazione nei grandi centri europei, hanno portato alla creazione di zone che si potrebbe definire “Stato nello Stato”, dove il dato etnico allogeno fa da padrone, scacciando gli autoctoni e arrogandosi il diritto di gestire quelle porzioni di città con regole e leggi proprie. Zone queste in cui non è mistero che la polizia o comunque le forze dell’ordine non possano mettere piede, se non incombendo in rischi e pericoli.

Per dare un esempio pratico di questa dimensione esterna ed autonoma dallo Stato e pronta – soprattutto! – a difendersi da esso, si guardi l’arresto precedente all’attentato di martedì del famoso terrorista Salah Abdeslam, rimasto libero fin da quel 13 novembre. A Molenbeek quartiere di Bruxelles, in un Belgio ribattezzato da molti “Belgistan” per la sua più che smodata propensione all’immigrazione massiva peculiarmente “mussulmana”, lì si è eretto un vero e proprio “sistema” volto a proteggere soggetti come Abdeslam, coperto il tutto da un’aurea di omertà. Una “cosca mafiosa” potrebbe essere definita. Una cosca mafiosa su base etnica e religiosa, con i suoi uomini e “piccioti” che danno asilo e rifugio ai propri fuggiaschi dalla legge, spalleggiati dalla popolazione.

Multiculturalismo e cittadinanza: ecco i temi su cui bisogna porre una profonda analisi. Al di là della levata di scudi volti a frenare “sentimenti xenofobi”, la politica deve porsi necessariamente dei dubbi riguardanti l’immigrazione e la società delle pluri culture. Non possono esser più un tabù. Non possono più esserlo quando le stesse autorità ammettono per prime che nei grandi centri europei vi è il concreto pericolo che possano esistere più “cellule terroristiche” di quelle identificate. Non possono più esserlo, quando le bombe, gli assalti armati, portano tutti un chiaro marchio etnico.

Nei casi di necessità si afferma “fare di necessità virtù”. E oggi la necessità è ripensare il modello della società europea!
Per troppo tempo sull’onda della “libertà” – ripetuta al pari di un mantra – che costituisce l’Europa, si è concesso porzioni di territorio sempre maggiore a popolazioni extraeuropee. Per giungere poi alla cittadinanza fornita in base al mero fatto di nascere all’interno dello Stato, senza guardare se vi fosse una conformità culturale, chiamando il tutto “rispetto per le diversità e inclusione delle minoranze”.

In questo Europa prona sul tecnicismo, attenta al pareggio di bilancio, incurante della cultura oggi la cultura torna prepotentemente sullo sfondo della scena su cui essa si aggira. I popoli da cui fuoriescono anche questi sanguinari assassini – nonostante il “laicismo” di cui si ammanta il “Vecchio Continente” come un vanto – si ritrovano nella loro cultura, consolidano aggregazioni comunitarie grazie alla loro cultura e religione, e le utilizzano come forza per richiamare a se un numero sempre maggiore di loro confratelli, muoversi da quei malfamati quartieri in passato cacciati o chiusesi loro stessi ed estendersi come una macchia d’olio, che non stenta a fermarsi, in tutto il territorio europeo.

Come poter arginare tutto questo? Bisogna predisporre un preciso piano di “blocco dell’immigrazione”. Abbiamo visto che l’immigrazione di massa che l’intero continente africano sta riversando sull’Europa, crea problemi enormi alla vita sociale degli Stati europei. I fatti di Colonia (Germania) di questo Capodanno sono un esempio lampante. Il continuo flusso di immigrazione incontrollata sta portando a ripetute scene di criminalità che tengono in ostaggio i cittadini europei. Quindi il flusso immigratorio si sta trasformando in un incentivo “utile” all’aumento dell’illecito, e tutto questo riguarda il “breve periodo”. Nel “lungo periodo”, complice la crisi economica e l’ammassamento di persone in luoghi dove non possono trovare nessuna occupazione, si corre il rischio di alimentare queste realtà di “Stato nello Stato” con un enorme apporto numerico, rischiando ulteriormente che il crescendo del numero di popolazione interne a tali realtà, porti ad un possibile ingrossamento delle fila delle “cellule jihadiste”. Se questa situazione non muterà direzione, nei prossimi decenni si potrebbe concretizzare il rischio di un vero e proprio “scontro sociale – etnico” tra autoctoni e allogeni, dalla portata inimmaginabile. A tutto questo l’Europa corre il rischio di andare incontro. E seguendo questo ragionamento, per di più ciò sarà aggravato dal contesto della cittadinanza sul principio dello “ius soli”. La cittadinanza concessa per il mero fatto di nascere all’interno del territorio dello Stato ospitante o suoi derivati che alla fine producono lo stesso risultato, può seriamente divenire un manforte ad un possibile scontro etnico. Se si considera cittadino una persona solo per il fatto che ha avuto i natali all’interno della giurisdizione territoriale dello Stato, senza considerare minimamente il dato etnico e culturale, si arriva alla situazione di oggi dove nei quartieri francesi e belgi si trovano cittadini con nazionalità francese e belga ma che con la cultura di tali paesi non anno niente a che fare, rimanendo ancorati alla cultura dei Paesi di provenienza se non addirittura “fanatizzandola”, costruendo così “sacche etniche e religiose” che sfidano l’autorità e la regolamentazione dello Stato. Questo è quello che accade nei grandi centri europei e non solo, oppure si vuole negare la realtà?

Matteo Renzi e tutta l’establishment della politica U.E., tengono ad affermare che per combattere questa situazione d’insicurezza si necessità di una “rivoluzione culturale”. Si è vero, serve una rivoluzione culturale. Ma che porti a comprendere all’Europa che il multiculturalismo è fallito, e pericoloso. Che per ridare slancio e forza ai cittadini europei, non va ricordato semplicemente che l’Europa è la patria dei diritti, delle libertà e dei valori “universali”, no! La vera “rivoluzione culturale” è quella che ridà agli europei coscienza di se stessi, della loro storia, affermando che l’Europa ha visto molti nemici, ma che contro di essi è sempre riuscita a fare “muro”. Raccontando delle Termopili, della cacciata di Annibale, della difesa di Vienna e prima ancora della battaglia di Lepanto. Non serve a nulla scrivere con i gessetti colorati sulle strade, disegnare vignette di bandiere belghe e francesi che si abbracciano in preda al pianto, non serve a nulla tutto ciò e anzi questo mostra solamente l’incapacità a rianimarsi, a porsi virilmente contro il pericolo: tutto questo manifesta la sola grande ipocrisia che aleggia in tutta l’Europa. Non diritti, non libertà, si racconti agli europei della loro plurimillenaria forza. Cessi il timore di non esporre la propria cultura e i propri simboli e credi con il terrore di fare sgarbo alla cultura e ai credi degli altri. Nei momenti di tensione le persone cercano simboli che gli possano raffigurare una sicurezza, e i simboli dell’Europa sono le cattedrali e le antiche costruzioni del mondo classico romano – greco; non semplici diritti “universali”, o generali libertà di “espressione” o di “culto”.

E questa ripresa di coscienza, questa “rivoluzione culturale”, si deve coadiuvare con intervento dell’Europa nei luoghi da cui partono i grandi flussi di migranti. Non serve a nulla rimpinguare di soldi la Turchia affinché ponga un argine alla inarrestabile marcia di uomini e donne proveniente dall’Africa o dal Medio Oriente. A breve arriverà l’estate e le rotte di transito dei migranti dal Mediterraneo saranno nuovamente “riaperte”. Anche quest’estate si vuole vedere i centri di accoglienza del sud Italia e della Grecia pieni ben oltre il limite? Anche quest’estate si vuole piangere i morti nel Mediterraneo che rischieranno di superare i decessi dello scorso anno? Bisogna che gli Stati europei coordinino una comune strategia militare, per andare a bloccare i flussi dal luogo di partenza. Attendere in vano che in Libia si costituisca un governo che richieda un intervento militare esterno sta solo tardando ciò che doveva essere fatto già da molto tempo. L’Europa deve tornare in Africa, non per conquistare, non per dominare. L’Europa deve tornare in Africa perché la vita di quel continente è indissolubilmente legata ad essa. Il lasciare il continente Africano e – soprattutto la sua parte a nord – in mano ai progetti geopolitici degli Stati Uniti d’America e all’egoismo di alcuni suoi alleati europei, ha prodotto la polveriera odierna. L’Europa deve tornare in Africa da se, con un progetto di riqualifica e investimento in quei luoghi. Coordinandosi con le nazioni che per prime lottano contro il terrorismo e i disastri politici prodotti dall’Occidente in Africa e in Medio Oriente, ovvero l’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi, la Sira di Bashar al-Assad, e soprattutto la Russia che è la nazione a cui spetta il merito di aver combattuto e vinto il pericolo dell’I.S.I.S..

Una nuova geopolitica e un’autentica “rivoluzione culturale”: ecco le ricette per l’Europa futura.

Federico Pulcinelli – Agenzia Stampa Italia

 

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