I referendum in Ucraina segnano una nuova fase internazionale

(ASI) Checché ne dicano e ne diranno gran parte dei giornali più importanti di casa nostra, i risultati dei due referendum contemporaneamente tenutisi negli oblast di Donets'k e di Lugansk, costituiscono una vittoria della democrazia popolare.

Sebbene in condizioni difficilissime e proibitive, la popolazione locale si è riversata volontariamente in massa sin dalle prime ore del mattino della domenica per esprimere il proprio dissenso nei confronti di un governo insediatosi attraverso un golpe violento, che sta agendo nella più completa illegittimità contro una parte dei cittadini ucraini. A Donets'k le istanze di indipendenza hanno trionfato con l'89% circa dei voti, mentre a Lugansk hanno superato il 95%. Cifre schiaccianti che, qualora venissero confermate anche da un'apposita commissione elettorale della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), dimostrerebbero senza ombra di dubbio l'autenticità della volontà separatista nell'Est dell'Ucraina. L'autoproclamato primo ministro ucraino Arsenij Jatsenjuk ha dunque l'appoggio dei governi occidentali, interessati per ovvi motivi al contenimento della Russia, ma non della popolazione del Sud-Est del suo Paese, dove lo Stato centrale comincia a perdere importanti pezzi.

Sin dal dicembre del 1991, al momento del definitivo scioglimento dell'URSS, tutti sapevano che la nuova repubblica indipendente ucraina non aveva alcun senso geografico, ancorché politico, e che il suo territorio nazionale non corrispondeva all'Ucraina storica, ben più marginale e spostata verso Ovest. A partire dalla Crimea per arrivare al Donbass ad Est e ad Odessa a Sud, la grande maggioranza della popolazione parla russo e riconosce nella Russia il suo naturale riferimento politico e culturale. Circa il 43% della popolazione nazionale dell'Ucraina è legato all'eredità storica di un'area che nel 1764 fu battezzata dalla zarina Caterina II col nome di Nuova Russia (Novorossija). Quella fascia di territorio era compresa latitudinalmente tra la roccaforte cosacca di Zaporožje e le coste settentrionali del Mar Nero; longitudinalmente tra la regione di Donetsk e l'odierno territorio della Transnistria, lunga striscia verticale in territorio moldavo che dal 1990 rivendica l'indipendenza da Chișinău e il ricongiungimento con Mosca.

Pur tuttavia, questo ribollire di sentimenti nazionali contrastanti non sarebbe mai riesploso in simili modalità se i partiti di opposizione non avessero istigato lo scontro di piazza a Kiev e in diverse altre città, per salire al potere senza alcun mandato elettorale e condurre cosiddette operazioni “anti-terrorismo” nei confronti di civili inermi che chiedevano la possibilità di esprimere il proprio parere alla luce del nuovo, sconvolgente scenario. L'Ucraina del nuovo presidente Oleksandr Turčjnov  è diventata in breve tempo un campo di battaglia pesantemente condizionato dal nazionalismo anti-russo che, in diverse sfumature, contraddistingue buona parte delle regioni centrali e occidentali del Paese. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno pesantissime responsabilità, avendo preferito soffiare sul fuoco dello scontro interno per recuperare dal “cassetto” dell'archivio quella “pratica ucraina” già accantonata nel 2010, quando la vittoria elettorale di Viktor Janukovič sancì la fine della fallimentare esperienza “arancione” di Viktor Juščenko. Stavolta, a differenza del 2004, Julia Timošenko è rimasta in disparte e ha lasciato campo libero ai volti meno “spesi” del suo partito, che a loro volta hanno affidato i compiti di polizia e repressione alle fazioni più estremiste rappresentate alla Rada (parlamento) dal partito Svoboda e per le strade dalle bande raccolte sotto la sigla di Praviy Sektor (Settore Destro). Questo grottesco riciclaggio del nostalgismo banderista ha risvegliato il vulcano dell'eredità storica, dove motivi ideologici, religiosi, culturali e linguistici si mescolano fra loro dando origine ad una miscela esplosiva che ha spaccato in due parti l'Ucraina.

Dopo la fuga di Janukovič e il voltafaccia di numerosi esponenti del Partito delle Regioni, il maggior contributo alla resistenza filorussa è stato fornito dalle strutture legate al Partito Comunista Ucraino, quarta forza politica nazionale, e da altre formazioni socialiste. Così come in quasi tutto lo spazio post-sovietico, anche e soprattutto in Ucraina i comunisti rappresentano sul piano delle relazioni estere le avanguardie di un orientamento patriottico panrusso, profondamente legato al passato sovietico e alla Chiesa Ortodossa di Mosca, che nel 1943, dopo essere stata riabilitata da Stalin, scelse di combattere al fianco dell'Armata Rossa contro Hitler. Dall'altra parte, invece, sono state rispolverate le effigi di Stepan Bandera, gli stemmi dell'UPA (esercito insurrezionale ucraino), le icone del “combattentismo” greco-cattolico e le croci celtiche, esibite senza troppi timori anche di fronte agli osservatori stranieri occidentali, sempre pronti a puntare l'indice contro i nazionalismi emergenti nell'Eurozona ma sorprendentemente indifferenti a quello estremista ucraino.

Eppure, nonostante le rispettive propagande cavalchino le contrapposte simbologie del passato con tutto il dolore e le sofferenze che queste richiamano, il nuovo confronto non può essere considerato una mera riproposizione in carta carbone degli schemi della Seconda Guerra Mondiale. Cosa bolle in pentola, dunque? In primo luogo la protezione umanitaria delle popolazioni del Sud-Est dagli attacchi armati delle bande governative che, soprattutto dopo la strage alla Casa dei Sindacati di Odessa, è divenuta una questione di stringente emergenza. In secondo luogo la risoluzione di una serie di controversie e dispute linguistiche, religiose e territoriali che è andata avanti per oltre venti anni in uno stato di contrapposizione latente o strisciante. In terzo luogo gli interessi della NATO, decisa a completare l'accerchiamento dei confini russi occidentali, e dell'Unione Europea, che brama di inglobare l'intera Ucraina cercando di non perdere le ricche e più sviluppate regioni orientali. Basti soltanto pensare che l'Oblast di Donets'k, con le sue storiche miniere, contribuisce da solo al 20% del PIL nazionale.

Dall'altra parte c'è ovviamente la risposta della Russia che, malgrado sia nelle condizioni di “aggredito”, sembra rispondere colpo su colpo e cerca addirittura di avvantaggiarsi dalla crisi, integrando territori da una posizione internazionale di relativa debolezza strategica (che, si badi bene, non implica necessariamente la debolezza sul piano strettamente militare) rispetto alla NATO, su base referendaria e col consenso delle popolazioni, come avvenuto nel caso della Crimea. Per Mosca sta dunque iniziando, forse inaspettatamente, una nuova fase di ridefinizione dei confini (un leit-motiv nella storia millenaria di questo vastissimo Stato), che potrebbe registrare una pesante accelerazione in tutti gli altri processi di integrazione lasciati in sospeso negli ultimi anni, a partire dall'Unione di Stato Russia-Bielorussia e dalle repubbliche de facto indipendenti dell'Abkazia, dell'Ossezia del Sud e della Transnistria.

Si tratta di un passaggio internazionale indirettamente favorito dalle simultanee difficoltà economiche che impediscono all'Occidente, e in particolare all'Europa, di forzare la mano nei confronti del Cremlino, stante anche la notevole dipendenza di diversi Paesi dell'Unione Europea dal settore energetico russo. Chi pensava che la fine dell'URSS potesse coincidere con il definitivo ridimensionamento storico di Mosca dovrà dunque ricredersi.

Fais Andrea  - Agenzia Stampa Italia

 

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