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                                                                                                                   Il vero problema è che l’Italia non ha uno Stato

                                                                                                                                                                                       di Andrea Fais

(
ASI) Dall’inchiesta che vede tra gli imputati l’imprenditore Tarantini, emerge uno scenario che, stando alle dichiarazioni fin qui rilasciate, non ha niente di diverso da quello che ci aspettavamo dal mondo delle cosiddette celebrità. Uno squallore senza eguali, fatto di ricatti sessuali, prestazioni a pagamento, raccomandazioni e vizi d’alto borgo. Tuttavia, sarebbe ridicolo accodarsi al chiacchiericcio polemico del gruppo editoriale di De Benedetti, di Repubblica, de L’Espresso o dei vari popoli viola, sempre pronti ad attaccare la persona di Silvio Berlusconi, senza una precisa motivazione politica di ampio raggio. Ancorché lontani dal rappresentare un’autentica opposizione radicale a questo governo, questi gruppi d’opinione e questi movimenti si sono fatti portatori del più squallido moralismo piccolo-borghese, privo di una coscienza politica e sociale a medio-lungo termine, anzi capace soltanto di produrre una critica vuota, insulsa e destinata a finire nella palude in cui il nostro Paese si è impantanato da ormai troppo tempo.

Pensare agli ultimi decenni della politica italiana come all’era del cosiddetto berlusconismo è infatti un errore storico e politico. Non solo perché a partire dal 1991, abbiamo registrato 11 anni di governi tecnici (Ciampi e Dini) o di centro-sinistra (Amato I, Prodi I, D’Alema, Amato II, Prodi II) e 9 anni di governi di centro-destra (Berlusconi I, II, III e IV), ma anche e soprattutto perché i problemi dell’Italia hanno radici che affondano nel consociativismo degli anni Settanta, in un assistenzialismo improduttivo e clientelare, in uno slittamento culturale dei comunisti, e nella loro progressiva involuzione, cominciata nel 1968, e proseguita pienamente negli anni Settanta con la convergenza tra la leadership di Berlinguer e la “sinistra” ingraiana e con il viaggio di Napolitano negli Stati Uniti nel 1978.

Nel momento in cui il movimento di più vasta rottura con la stagnazione democristiana, quello comunista, avrebbe dovuto incarnare una forza di cambiamento, è invece caduto vittima di un declino interno senza precedenti, reinventando sé stesso come “sinistra”, adattandosi alla dialettica “democratica” dei Paesi occidentali, senza però acquisire la maturazione strategica riformista proposta dalla corrente di Amendola, velocemente accantonata e messa in minoranza contemporaneamente all’emarginazione della corrente filo-sovietica cossuttiana, vittima prescelta del cambiamento di prospettiva in merito alla Nato da parte della segreteria Berlinguer. La trasformazione seguita al 1989 e il passaggio della Bolognina fu dunque soltanto il risultato finale di un lento cammino, cominciato almeno venti anni prima. La costruzione della occhettiana “gioiosa macchina da guerra” rispondeva a criteri che, nel fondo, sfuggivano alle logiche del semplice confronto ideologico tra post-comunisti e post-pentapartitisti, nel frattempo riparati sotto le insegne della nuova formazione politica berlusconiana (Forza Italia).

L’Italia usciva da un biennio – 1992-1993 – assolutamente devastante, che aveva visto la Lira polverizzata dalle attività di speculazione del fondo di George Soros, e l’intero sistema delle partecipazioni statali – fondato sull’IRI – completamente disossato da gruppi economici stranieri. La saldatura tra l’allora emissario italiano della Goldman Sachs, Romano Prodi, e il nuovo soggetto politico raccolto intorno alla maggior parte dei post-comunisti, andava dunque a porre le basi di una coalizione politica del tutto particolare, dove l’ulivo non costituiva semplicemente un nuovo simbolo, ma l’estrema sintesi di una completa e radicale trasformazione controllata. Quando Agnelli disse “i miei interessi di destra sono meglio difesi dalla sinistra”, rese bene l’idea di quanto stesse avvenendo.

È dunque l’antiberlusconismo la gabbia opprimente entro cui la cosiddetta “sinistra” ama rinchiudersi per assenza di grandi contenuti, o piuttosto fu Berlusconi a costituire un malmesso ed improvvisato scudo protettivo per quegli ambienti industriali, legati al vecchio sistema delle partecipazioni statali, che i vertici di Confindustria e diversi centri di potere statunitensi e britannici vollero riciclare o eliminare con l’aiuto del nuovo centro-sinistra? La domanda non è di facile soluzione, tuttavia una sua conferma potrebbe avvicinarsi di molto alla realtà di allora, una realtà che, sebbene sia ormai consegnata al passato degli anni Novanta, risulta tutt’oggi fondamentale per capire la concreta entità e il reale orientamento delle forze in campo nell’agone politico del nostro Paese.

Oggi Berlusconi è completamente isolato, perso nello squallore di storie senz’altro gonfiate e strumentalizzate, ma riferite a fatti evidentemente reali, che ne hanno condizionato negativamente la capacità di governo. L’indebolimento della posizione di Berlusconi ha minato la stabilità del nostro Paese, a tutto discapito di quegli accordi internazionali che – considerando anche l’esito scelleratamente e pregiudizialmente anti-nuclearista dell’ultimo referendum di giugno – assumevano un’importanza capitale. Accordi che – invece – sono stati frettolosamente rivisti (è il caso delle importanti relazioni con la Russia, specie in merito al progetto South Stream, ripiombato nell’incertezza anche a causa dell’incognita legata al nuovo atteggiamento della Turchia di Erdogan) quando non addirittura cancellati, come nel caso della Libia e della disastrosa decisione di partecipare alle operazioni militari contro il Paese nord-africano.

Proprio nel pieno di un intervento che sta tutt’ora gonfiando la già abbondante spesa militare del nostro Stato, è arrivata la richiesta della BCE di anticipare il pareggio di bilancio, costringendo Tremonti agli straordinari. Fa senz’altro riflette il fatto che appena due settimane prima il Parlamento avesse ratificato, con larghissima maggioranza, un nuovo finanziamento alle missioni militari italiane all’estero. E fa altrettanto pensare il fatto che le uniche proposte di taglio fin qui avanzate riguardino progetti di privatizzazione – totale o parziale – di Poste Italiane o di altre aziende strategiche come Eni, Enel e Finmeccanica, già messe sotto scacco nel biennio nero 1992-1993, ed oggi pesantemente colpite dalla crisi libica e dalla destabilizzazione della nazione africana.

Le trattative, più o meno segrete, col fondo sovrano della Cina non devono sorprendere e l’aiuto della nazione asiatica andrà senz’altro a coinvolgere anche importanti settori strategici (in primis infrastrutture e risorse energetiche) e a diversificare, migliorandolo, uno schema di relazioni internazionali, per il nostro Paese, fin’ora sempre troppo rigido e schiacciato dall’unipolarismo nord-atlantico dominante negli ultimi venti anni. Tuttavia, come ricorda il primo ministro della Repubblica Popolare, Wen Jiabao, siamo noi a dover “rimettere ordine in casa”. E senza le solide fondamenta di uno Stato capace di stabilire e tutelare sino in fondo i propri interessi, la strada è tutta in salita.

                                                                                                                                                                      

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