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(ASI) Dopo lo schiaffo “correttivo”di luglio, il cazzotto allo stomaco di ferragosto. Ci sono da altri 45 miliardi e mezzo da rastrellare in due anni (20 nel 2012, il resto l’anno dopo) per anticipare il pareggio di bilancio dal 2014 al 2013, come richiesto (imposto) dall’Europa.

La manovra bis, dopo quella correttiva del mese scorso, è già nell’occhio del ciclone in maniera bipartisan: dall’opposizione, ma anche da settori della maggioranza, se ne contesta non solo l’iniquità (a pagare sarebbero sempre i lavoratori dipendenti) ma anche la i termini di rilancio dell’economia, stante la assoluta mancanza di misure strutturali e di lungo respiro.

Ma c’è un altro aspetto che rischia di essere un palliativo, un orpello adottato per tacitare la piazza senza risolvere alla radice un problema fondamentale per uno Stato di diritto, per la democrazie e per l’efficienza e qualità del sistema politico-istituzionale. La cosiddetta riduzione dei costi della politica, nella manovra bis, finisce per sostanziarsi nel taglio draconiano e, perciò, indiscriminato, di Province e Comuni.

Indubbiamente la direzione è giusta, anche se tardiva, perché molte Province servono solo ad alimentare clientele e caporalato di partito (non a caso la Lega, partito che lucra dal sistema esattamente come gli altri, è stata la principale oppositrice dell’abolizione costituzionale, tout-court, delle Province). E molti Comuni, fatta salva l’identità storica municipale che è patrimonio da salvaguardare, devono associare funzioni e compiti per raggiungere la massa critica necessaria per organizzare servizi ai cittadini degni di questo nome, con costi ragionevoli.

Ma, se la direzione è giusta, le misure non convincono. Sembrano specchietti per le allodole messi lì per far digerire meglio agli italiani i sacrifici che si impongono loro dopo trenta anni e più di finanze allegre e di allargamento a voragine del debito pubblico.

L’occasione della crisi finanziaria internazionale doveva (dovrebbe) essere còlta per una riflessione profonda sul rapporto tra costi e qualità della politica, che è sostanza della democrazia e presupposto dello sviluppo generale (anche economico, quindi) di una Comunità.

Nelle ultime settimane si sono moltiplicate su tutte le testate le inchieste giornalistiche sui costi dell’apparato politico-istituzionale (e, per inciso, il trattino tra le due parole indica già una patologia perché significa che la politica vorace, da decenni, ha occupato le istituzioni e ne ha piegato azione, logica e spese alle proprie esigenze). Segno che il problema è sentito, e non da adesso: e, anzi, ci sarebbe da chiedersi perché l’informazione solo negli ultimi tempi si è dedicata con tanta assiduità a svelare i retroscena poco edificanti delle spese dei politici.

La questione suscita così tanta sensibilità essenzialmente perché la politica e le istituzioni sembrano ai cittadini, non solo lontane, ma in molti casi addirittura estranee ai problemi ed alle aspettative degli italiani, tutte affaccendate in questioni e ricerche di equilibri tra gli interessi particolari dei soliti, pochi eletti iscritti ai “circoli” ristretti della casta. I quali, insomma, per dirlo in modo spiccio, danno forte la sensazione che, anziché servire il potere, piuttosto se ne servono.

La schematizzazione appena fatta è brutale, alcuni potrebbero dire demagogica. E, ovviamente, esistono presenta eccezioni, anche rilevanti, alla regola, a tutte le latitudini, geografiche e politiche, del nostro paese. Tuttavia, sembra che il processo degenerativo della politica, già presente nella “prima repubblica”, sia precipitato con la “seconda”, in maniera corrispondente e proporzionale alla “mediocrizzazione” del ceto politico.

Chi ha frequentato i politici di prima e quelli dopo tangentopoli, sa bene che il ceto dirigente emerso dopo quegli anni è oggettivamente di spessore minore, di veduta corta, di orizzonti tutt’altro che strategici. Il giudizio è certamente una generalizzazione, ma è largamente diffuso e coglie la sostanza dei fatti.

Sono venute avanti le seconde, terze e quarte linee dei partiti che, nella cosiddetta prima repubblica, non avrebbero avuto nessuna chance di ricoprire ruoli di vertice, né nei partiti, né nelle istituzioni. E si sa che spesso, non solo in politica, alla mediocrità si accompagna una certa qual spregiudicatezza nel curare e difendere le posizioni di rendita raggiunte.

Da qui l’ “imbarbarimento” della politica, cresciuto esponenzialmente negli ultimi quindici anni, e consistente non solo nel moltiplicarsi generoso di poltrone, sediole, incarichi a latere e prebende di ogni genere; ma anche nella “ferocia” con cui si è interpretata la lotta politica, trasformata sempre più da confronto serrato sulle cose e sulle scelte a lotta per bande senza esclusione di colpi.

Una lotta tutta (o quasi) finalizzata ad occupare i gangli del potere per sé ed i propri amici, a prescindere da quale utilizzo dello stesso si pensasse (se se ne pensava davvero uno) per dare risposte di politiche, nel senso nobile del termine, ai problemi delle Comunità. Questa politica, come avrebbe potuto concepire scelte strategiche nei settori importanti della vita italiana e, in particolare, in materia di riforme dello Stato e della Pubblica Amministrazione? Non ne aveva le capacità e, soprattutto, non avrebbe mai tagliato il ramo su cui stava comodamente seduta.

Il debito pubblico è un problema che si è posto già sul finire degli anni ottanta, quando le sue dimensioni erano tali che, anche approfittando della congiuntura economica internazionale favorevole, lo si sarebbe potuto affrontare con misure molto meno dolorose di quelle attuali. Poi, negli ultimi venti anni, il problema è stato disinvoltamente trascurato dalla classe dirigente, ed ha assunto le proporzioni mostruose a motivo delle quali l’Italia è bersaglio esposto alla speculazione internazionale.

Se oggi, come sistema Paese, siamo al punto in cui siamo, lo si deve ad una miopia e irresponsabilità di chi ci ha governato negli ultimi lustri. Dunque, nessuna riforma vera dello Stato, nessun trasferimento strutturale di poteri e, quindi, di corrispondenti risorse all’estrema periferia, ai territori. Che voleva dire, nel dibattito che accompagnò l’istituzione delle regioni, dare a queste solo funzioni politico-programmatorie ( e non le mani in pasta nel quotidiano, come avviene ora) e passare le funzioni amministrative e gestionali ai Comuni, opportunamente associati. Sullo sfondo, il ruolo delle Province o scompariva, o veniva ricondotto ad enti di aggregazione di alcune delle funzioni di area vasta.

Se tutto questo si fosse fatto per tempo, senza aspettare che l’acqua salisse fino al livello delle labbra, avrebbe aiutato l’Italia a rispondere alla crisi finanziaria ed economica mondiale con ben altra e maggiore capacità. E ciò per due motivi, tra loro connessi. Il primo, è che il taglio di posti avrebbe determinato direttamente e immediatamente un taglio dei costi. Il secondo, meno immediato negli effetti ma ancor più importante sul piano della cultura politica, perché una scelta di quel tipo avrebbe indicato e tracciato per tutti i naviganti la direzione opposta a quella poi effettivamente percorsa, impedendo la moltiplicazione di incarichi e posti di ogni genere e tipo. E questo avrebbe grandemente contribuito ad evitare i fenomeni di scadimento della qualità della politica sopra richiamati.

Tanto per fare un esempio, se un consigliere regionale o provinciale (solo per carità di Patria non parliamo dei parlamentari e dei loro privilegi) non percepisse un’indennità di migliaia e migliaia di euro, con relativi annessi e connessi, ivi compreso il lauto vitalizio (prerogativa tutta e solo italica) saremmo certi che ci sarebbe, al momento delle candidature, la bagarre da assalto al forno tra singoli, cordate e capi-popolo? Forse, riconducendo l’indennità a cifre decorose ma più modeste e senza diritti acquisiti vita-natural-durante, si potrebbero riaprire spazi e possibilità di coinvolgimento nella politica di persone animate da autentica passione civile. Persone che se ne sono allontanate, o non vi si sono neppure avvicinate, proprio perché respinte dalle “logiche” dominanti nel mondo politico attuale, contrarie all’impegno disinteressato a servizio del solo bene comune.

Nessuno, credo, mette in discussione che chi assume incarichi istituzionali a servizio della Comunità debba poterlo fare anche con giusti riconoscimenti economici. E non si tratta solo, né tanto, di un problema di entità, anche se le indennità percepite nelle istituzioni italiane sembrano, francamente, ingiustificabili al confronto con quelle corrispondenti degli altri Paesi europei.

Il problema sembra essere, piuttosto, quello del rapporto tra le cifre e la qualità del lavoro. Ad oggi, non è solo una vox populi, ma opinione diffusa anche tra chi ha esperienza ed occhio clinico per valutare lo specifico della politica italiana, che, tanto per mutuare un termine commerciale, il rapporto costo/qualità, sia sproporzionato.

Molti credono che i due termini della frazione sono inversamente proporzionali tra di loro, nel senso che se si riportasse la politica ad esser cosa alta, fatta per passione civile, per spirito di servizio e non per tornaconto, verrebbero meno molti appetiti insani, molte superfetazioni di enti, società, portavoci e porta-altro. Per cui, diminuirebbe il dividendo (costi) e aumenterebbe il divisore (qualità) con benefici non solo per le pubbliche casse, ma anche (soprattutto) per la democrazia, il livello e il valore delle scelte con cui governare il Paese e, cioè, le nostre vite, ora e in futuro.

 

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