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Dino Greco (Liberazione) La deriva greca dell'Italia e la fabbrica del fumo
(ASI) Dopo mesi di irresponsabile traccheggiamento, gli sgangherati governanti di questo sfortunato paese, di fronte all'impennata del differenziale fra Btp e Bund tedeschi che fa schizzare in alto gli interessi sul debito, sono letteralmente presi dal panico. Ed è francamente umoristica la continua corsa delle autorità monetarie e dei vertici dell'Ue a benedire i conti dell'Italia, alla quale corrispondono - quotidianamente - crolli dei titoli quotati in borsa.

Il fatto è che la crisi si avvita ormai al di fuori di qualsiasi prevedibilità e capacità di controllo da parte dei soloni, dei campioni del liberismo planetario. Figuriamoci di quale lungimiranza sono capaci i nostrani saltimbanchi. I quali, dopo aver a lungo spergiurato che l'Italia e i suoi solidi fondamentali finanziari ed industriali l'avrebbero messa al riparo da rischi soverchi, ora strillano come aquile che «la casa brucia».

 La manovra da 80 miliardi appena varata, interamente a spese della povera gente, si è dunque rivelata un puro trucco politico-contabile, priva com'è dei requisiti indispensabili per invertire il trend depressivo dell'economia e imprimere un impulso agli investimenti e alla crescita.

Crescita: parola magica, evocata con la stessa credibilità che si addice ad un esorcismo. Perché tutto quello che sino ad ora si è fatto - dai tagli alla scuola, alla ricerca, ai redditi da lavoro, alla sanità - si muove nella direzione diametralmente opposta: tutto converge nel comprimere la domanda interna, i consumi, non quelli voluttuari, sacrificabili senza affanno, ma quelli che mordono sull'osso e consegnano alla povertà masse crescenti di persone. Nello stesso tempo, hanno lavorato con la lancia termica a bruciare le precondizioni stesse dello sviluppo, incoraggiando la vocazione usuraria del capitalismo italiano, di un sistema di impresa del tutto refrattario a qualsiasi percezione della propria responsabilità sociale e perfettamente complementare all'inerzia della classe politica che esso ha promosso e per lungo tempo sostenuto alla guida del paese.

Ora che il re è nudo e che non esistono più margini per inconcludenti giaculatorie, ora che l'incendio si propaga, la domanda è chi lo spegnerà. E come. E' certo che difficilmente potranno riuscirvi i piromani che lo hanno appiccato ed alimentato.

Nei giorni scorsi abbiamo assistito alla stupefacente convergenza di banche, imprese e sindacati su un documento che nel mentre chiedeva «discontinuità», politiche per la crescita e l'occupazione, restava del tutto indeterminato circa la direzione da prendere, salvo che nella richiesta che il governo dell'ormai "bollito" Berlusconi si facesse da parte.

Banca d'Italia e Confindustria, che palesemente orientano il gioco, parlano apertamente di una manovra-bis, il cui obiettivo è quello di raggiungere, in anticipo e a tappe forzate, il pareggio di bilancio.

Ferruccio De Bortoli, sul Corriere della Sera, esplicitamente chiede «misure eccezionali», con annessi, ulteriori sacrifici per le famiglie. Per essere chiari, il verbo è «privatizzare e liberalizzare».

Ancora più chiaramente di quanto non dica un linguaggio già così esplicito, la ricetta che fra breve produrrà i suoi devastanti effetti, comporterà - sull'esempio greco - una gigantesca asta all'incanto di beni pubblici e la collocazione sul mercato di gran parte dei servizi di natura sociale: sanità, assistenza, scuola per l'infanzia. E poi, ancora, la gestione dei trasporti, dei rifiuti, dell'acqua. Insomma, un taglio secco della spesa sociale per scaricarne interamente l'onere sui cittadini. Tutto ciò, nel perdurare di una situazione di blocco delle retribuzioni che, tuttavia, sembra non bastare. Perché l'occasione sta diventando propizia per tornare sull'antica ma sempre verde intenzione padronale di sradicare anche gli ultimi brandelli del giuslavorismo progressista, sopravvissuti alle cure di Treu prima e di Sacconi poi. L'idea sciagurata è quella che un impulso alla ripresa dell'occupazione possa venire da un'ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, consegnando cioè al macero la legge 300/70 e sostituendovi un'immacolata prateria, dove il lavoro (retribuzioni-vincoli-diritti) si svende a prezzi di saldo. Poi la pietra tombale, nei fatti già apposta sulle pensioni di anzianità e la definitiva fissazione (per tutti e per tutte) dell'asticella a 70 anni per godere (?) del diritto alla pensione. Come questa misura si concili poi con l'obiettivo di aprire le porte del lavoro ai giovani è uno di quei rompicapo che neppure la sofistica ateniese del V secolo a.C. avrebbe potuto risolvere.

Dunque, la manovra-bis che la tecnocrazia bancario-confindustriale sta per tenere a battesimo sotto l'alta egida della Presidenza della Repubblica continuerà a battere esattamente lo stesso chiodo della prima, ma con ancora più forza e diabolica pervicacia.

Pertanto nessuno si illuda che nel novero degli interventi possano contemplarsi prelievi di qualche sostanza su patrimoni, rendite e capitale. O che la redistribuzione del reddito verso i piani bassi dell'edificio sociale possa essere considerata una valida leva di politica economica, oltreché un atto di giustizia. Questo non accadrà, perché coloro che si candidano a salvare la patria hanno già deciso chi sarà l'agnello sacrificale e a quale simulacro immolarlo.

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