Ebbene, sono trascorsi due giorni da quando questo giovane ventinovenne padovano si è ucciso, ma non sono affatto convinto che la causa sia da attribuire solamente alla crisi. Il suo ultimo scritto sul socialnetwork facebook è emblematico, e riassume la sua condizione di precario, lavorativo ed esistenziale. La sua "bacheca" afferma che lui, "trent'enne e senza un euro in tasca, un lavoro e una casa propria, e gli amichi che ti chiedono ogni tanto come va, non ha nulla da perdere, e può anche ammazzare qualcuno". Nel caso in questione, ha scelto di porre fine alla sua vita, non a quella degli altri.
E' chiaro che il ragazzo in questione fosse un precario, senza un'occupazione stabile. Altrettanto chiaro è che egli avrebbe voluto costruire una sua indipendenza, con una casa propria, o magari una famiglia. Questa società non lo ha reso possibile, vista la congiuntura economica, e viste le prospettive mancanti in toto.
La stessa società che ha condotto il giovane al gesto estremo lo ha criticato, pubblicamente, post mortem. In un connubio di assurdità e follia, la sua bacheca virtuale è stata investita di centinaia di "perché", criticando il fatto che non abbia "chiesto aiuto" agli amici, i quali, in un impeto di generosità, lo avrebbero fatto, almeno provando a salvarlo dalla morte.
Eppure questi amici, o presunti tali, non si comprende dove fossero quando il ragazzo era in difficoltà. E' chiaro che il giovane fosse una persona introversa, tendente a non esprimere il proprio dolore. Proprio per questo "gli amici" avrebbero dovuto esserci, spronarlo, almeno confortarlo. Invece, si sono presentati, ma a fatto compiuto.
Invece, quando una persona "si isola", accade proprio l'eliminazione della parte debole della catena. In pratica, la rimozione coatta di una persona avviene in automatico. Poco importa se questa soffre, manda curriculum e nessuno li visiona, percepisce di non avere alcuna prospettiva futura. Se non uscirà più, nessuno penserà che il "debole" stia evitando una brutta figura poiché privo di denaro, ma in automatico, si desumerà che "è stanco della solita compagnia", e verrà rimosso.
Si fa presto a cancellare una persona. Purtroppo, e questo non si può imputare alla crisi, si è perso quel senso di comunità, che animava gli italiani sino agli anni '60 del secolo scorso. Intere famiglie, quartieri, vicinati si aiutavano, nella vita, nel lavoro, nell'affrontare la quotidianità. Ora, vince il più forte, e il tassello debole perisce, si dissolve, come neve al sole.
Si potrà accusare questo giovane di un atto egoistico, in grado di causare ulteriore sofferenza. Probabilmente muovere questa accusa sarà facile. Eppure, repetita iuvant, la crisi non è l'unico imputato da far salire, sul tribunale degli accusati e accusatori. Gramsci ci insegnerebbe che ad ucciderlo è stata l'indifferenza. Quella stessa che centinaia di persone usano nei confronti del prossimo dopo averlo frequentato per anni, come se all'improvviso, divenisse "un capo passato di moda".
Le persone che ora si stanno domandando perché questo giovane non abbia chiesto aiuto, invece di accusare un morto, potrebbero interrogarsi sul dove fossero prima. E avendo compreso poi di essere colpevoli, possono solo fare una cosa di positivo: cambiare questa società, affinché ciò non si ripeta più.
Mentre sto finendo quest'articolo, la notizia di un nuovo suicidio di un imprenditore - agente di viaggio padovano, sta campeggiando nel sito del quotidiano Il Mattino di Padova. Sarebbe altresì il caso di agire, senza molte remore, ed in fretta.
Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia