"L'assemblea è fatta di dirigenti che oggi hanno preferito l'ovazione e l'unanimità, poi uno su quattro di noi qui ha tradito. Prodi ha rinunciato, lo capisco, io non posso accettare quello che è successo e oggi il Pd impedisce una soluzione per il Quirinale. Con tutta la disponibilità e la responsabilità, per me è troppo. Spero che la mia decisione serva ad arrivare ad un'assunzione di responsabilità».
Sono queste le parole di congedo di Pierluigi Bersani, segretario del secondo partito politico italiano, nella tarda serata del 19 aprile. Sono parole che ammettono una disfatta comunitaria e personale: la prima vede il PD dissolto in rivoletti, la seconda termina con le dimissioni da segretario dei Grandi elettori del PD.
Il PD, forza politica seconda solo al Movimento 5 stelle dopo le elezioni del 28 febbraio scorso, si auto epura dirigenza e padri fondatori, constatata l'impossibilità di proporre un nome alla Presidenza della Repubblica.
Il “centralismo democratico” di novecentesca memoria esplode in molteplici faide messe a tacere sin dalla fondazione del PD. La via italiana alla social democrazia non ha mai del tutto preso il volo come nel resto dell'Europa, divisa fra sinistra europeista alla D'Alema e centristi.
Franco Marini e Romano Prodi, entrambi fondatori del partito, sono stati proposti e poi bocciati dai deputati PD in una due giorni di psico dramma.
La proposta del nome di Marini ha addirittura generato il fenomeno “Occupy PD”: i giovani del partito hanno occupato le sedi per gridare “No ad un accordo con Berlusconi “ su tale nominativo.
Peccato che questo vigore, di solito sopito su questioni giovanili ben più importanti, si sia scagliato verso un ideologo nonché un ex Presidente del Senato della propria storia politica. La logica è quella del “PdL male assoluto”, una cultura della dissoluzione che da due mesi nega un governo ad una nazione in crisi.
Ma è con la candidatura alla Presidenza di Romano Prodi che lo spettro di Berlusconi termina di essere il capro espiatorio di circa venti anni di centro sinistra.
Bersani lancia Prodi Presidente, e il quorum di 504 voti sembra ormai cosa fatta, al punto che già vengono indette manifestazioni contro Prodi davanti Montecitorio. Alessandra Mussolini, deputata PdL, vota persino con la t shirt “Il diavolo veste Prodi”.
Mentre fuori dal Parlamento vengono issate le bandiere di “Prodi non è il mio presidente”, 101 deputati del PD non lo votano, ovvero un quarto del partito.
Prodi non è eletto, e l'amarezza dell'ex Presidente della Commissione europea è carica di bile: «Chi mi ha portato fin qui deve assumersene la responsabilità».
Prodi non ammette brutte figure da parte della politica italiana dopo essere stato incaricato dall'Unione Euoropea di introdurci nel mercato dell'euro. Dove Prodi punta il mirino, i bersagli cadono, e Bersani e Rosy Bindi rassegnano le dimissioni.
Prodi è il luogotenente italiano di un lobbysmo europeista al quale non è possibile dire di no.
Non è la democrazia elettiva ad averlo proposto alla Presidenza, non è stato di certo Bersani, ma è stata la Trilateral Commission di cui è membro.
Senza l'aderenza a tali piattaforme finanziarie pro Unione Europea e pro politica del rigore contro il debito pubblico, un Presidente della Repubblica italiana non è mai stato eletto.
Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, il candidato M5S Stefano Rodotà, il candidato Prodi, sono gli esponenti italiani Trilateral deputati ad indirizzare il paese nei binari che la commissione fondata dal banchiere americano David Rockefeller ha in mente.
Tecnocrazia e interdipendenza fra le tre parti (Europa, Giappone Usa) porteranno ad un cedimento della sovranità elettiva ad un parlamento globale di personalità invitate, non elette, dal mondo dell'industria, della finanza, dell'accademia. L'Italia conosce bene questo indirizzo di pensiero, non è affatto il mondo del futuro: il governo dei tecnici di Mario Monti, membro Trilateral, è stata una prova generale.
Comunque vada alla Presidenza della Repubblica italiana, per la BCE sarà un successo.
Tornando al PD, l'aumento di popolarità di Matteo Renzi, accusato di aver capeggiato i 101 traditori, non è affatto singolare se vengono considerate le analogie del suo modus operandi con quello di Silvio Berlusconi, un leader ancora in piedi, con cui intrattiene rapporti di stima reciproca a differenza di Bersani.
All'indomani del taglio di testa, il PD riflette sui nomi di Giuliano Amato e Napolitano, il primo 75enne e il secondo 88enne.
Entrambi sono stati catapultati negli anni duemila dagli anni '50 del novecento, quella realtà politica da cui le nuove generazioni hanno ereditato uno Stato del terzo mondo.
La governance dell'UE non è affatto una scusante della qualità della classe politica italiana, che riversa la sua disperazione su due persone anziane ma soprattutto sorpassate dagli eventi.
Nel male assoluto dell'austerity, il Parlamento potrebbe scegliere un candidato contemporaneo e proiettato al futuro e alla ricostruzione, ma questa prospettiva sembra essere aliena e futuristica. Sembrano così profetiche le parole del Financial Times sull'Italia nel reportage del 19 aprile: Lost in stagnation, persi nella stagnazione.
Maria Giovanna Lanotte – Agenzia Stampa Italia