Negli ultimi giorni ha suscitato polemiche una decisione delle autorità kosovare di vietare la circolazione ad automobili che abbiano targhe serbe, emesse dalle autorità di Belgrado per il territorio del Kosovo. Circa trecento serbi del Kosovo hanno inscenato una manifestazione di protesta, a bordo delle proprie auto, contro quella che definiscono una decisione iniqua di Pristina e votata alla cancellazione della loro identità. "Noi vogliamo che Eulex e Kfor siano nostri partner, ma non possiamo accettare che la comunità serba venga relegata in un ghetto", ha detto Radenko Nedeljkovic, capo dell'assemblea municipale del settore nord di Kosovska Mitrovica, abitato dai serbi. L'insofferenza di quei circa 110.000 serbi del Kosovo (il 5% della popolazione) verso le autorità di Pristina è un dato lampante, che dimostra l'inefficacia del "percorso di democratizzazione" imposto dagli atlantici ai popoli dei Balcani. Recentemente, un referendum consultivo organizzato in quattro municipalità del nord del Kosovo ha prodotto un risultato inequivocabile, ovvero che il 99,74% dei serbi risponde "no" alla seguente domanda: “accetti le istituzioni della cosiddetta Repubblica del Kosovo?”. L'alta affluenza e l'indirizzo "bulgaro" di questo referendum dimostrano che la determinazione dei serbi a difendere i propri diritti in Kosovo non si è affatto assopita, sensazione che si percepisce ugualmente nel verificare come centinaia di serbi siano disposti a scendere in strada pur di tutelare una targa automobilistica.
Se la mobilitazione è così massiccia quando c'è da perorare la causa di un pur simbolico pezzo di latta da affiggere su un'automobile, figurarsi quali concitazioni possano creare i colpi inferti al cuore religioso dell'indentità serba. E' di questi giorni l'urlo disperato di Teodosije Sibalic, vescovo ortodosso di Raska e Prizren: "Non lasciateci soli". Il suo appello è rivolto alla missione Kfor (Kosovo Force, missione della Nato), considerata l'unico deterrente nei confronti di quegli albanesi intolleranti che continuano ad assaltare monasteri, a devastare luoghi sacri al cristianesimo in tutto il Kosovo, finanche a profanare cimiteri. I numeri sono impietosi: dall'inizio della guerra, sono state devastate circa 150 chiese, e solo per un'infima percentuale di queste sono iniziati i lavori di ristrutturazione. Non soltanto i siti, anche i religiosi in carne e ossa sono l'obiettivo della ferocia di alcuni albanesi. A maggio, un monaco della chiesa dei santi Cosma e Damiano, situata vicino alla città di Orahovac, è stato assalito con lanci di pietre e picchiato da un gruppo di giovani albanesi. Il vescovo Sibalic spiega che in seguito alla riduzione dei contingenti inviati in Kosovo dopo la fine della guerra per garantirne la stabilità, "gli unici monasteri protetti sono rimasti quelli di Decani e di Pec". Nel monastero di Decani, un gioiello artistico costruito nel XIV secolo, vivono attualmente 25 monaci, i quali hanno l'enorme responsabilità di conservare dalle possibili aggressioni albanesi una reliquia dell'identità serba, si tratta di un candelabro forgiato con le armi dei cavalieri serbi sconfitti nella battaglia di Kosovo Polije (combattuta contro gli ottomani del 1389).
E' proprio sul ricordo di quella battaglia che il popolo serbo ha edificato la propria epica, un'eredità solenne che desta i loro spiriti malgrado una realtà che, nel Kosovo, li vede vessati e relegati in enclavi circondate da un odio che si trasforma spesso in violenza.
Federico Cenci - Agenzia Stampa Italia