(ASI) In Guinea, il ritorno alla “normalità costituzionale” rischia di coincidere con la consacrazione di un nuovo potere personale. Il 21 settembre, il Paese ha approvato con l’89% di voti favorevoli una nuova Costituzione che sostituisce la Carta di transizione emanata dopo il colpo di Stato del 2021. Il tasso di partecipazione, dichiarato all’86%, è stato accolto con scetticismo dall’opposizione, che aveva invitato al boicottaggio denunciando una “farsa elettorale”.
Ma per il governo militare guidato dal generale Mamadi Doumbouya, l’esito è una prova di legittimazione politica e il preludio alle future elezioni presidenziali annunciate per la fine del 2025. Dietro la retorica della “restaurazione democratica” si cela però un testo scritto a misura del capo della giunta.
La nuova Carta elimina il divieto per i membri del governo di transizione di candidarsi alla presidenza, aprendo così la strada a una possibile discesa in campo di Doumbouya stesso. Il mandato presidenziale viene esteso da cinque a sette anni, rinnovabile una sola volta, ma con un potere esecutivo più forte e un parlamento più docile: nasce infatti un Senato di nomina parziale, un terzo dei cui membri sarà scelto direttamente dal presidente. È una riforma che concentra ulteriormente il potere a Conakry, in un Paese già abituato a vedere il potere identificarsi con la figura del capo.
La Costituzione introduce anche alcune misure dal sapore modernizzatore: l’ufficializzazione di otto lingue locali accanto al francese, la quota del 30% di donne nelle cariche pubbliche e la creazione di una Corte speciale incaricata di giudicare i reati commessi da alti funzionari.
Tuttavia, l’articolo che garantisce immunità civile e penale agli ex presidenti sembra contraddire l’intento di rafforzare la trasparenza e l’accountability. Più che un equilibrio tra poteri, dunque, il testo appare come una cornice di continuità, dove l’accentramento è mascherato da riforma.
A livello politico, la rimozione dei limiti d’età tra i 35 e gli 80 anni per la candidatura presidenziale è stata interpretata come una mossa calcolata per escludere due figure storiche dell’opposizione oggi in esilio: l’ex presidente Alpha Condé e l’ex premier Sidya Touré, rispettivamente di 87 e 80 anni. Entrambi sono stati simboli, nel bene e nel male, di un’epoca che Doumbouya vuole archiviare con un nuovo lessico di potere: giovane, muscolare, paternalista.
Ma la vittoria del “sì” si inserisce in un contesto politico segnato da sospensioni di partiti, chiusure di media indipendenti e divieti di manifestare. La Guinea di oggi, pur non avendo rotto con Parigi come altri Paesi del Sahel, vive una transizione che sembra più una gestione del potere che un percorso democratico. La propaganda ufficiale ha trasformato Doumbouya in una figura carismatica e “popolare”, protagonista di comizi oceanici, letture del Corano e concerti reggae in suo onore: elementi che mescolano nazionalismo e religiosità, legittimazione popolare e culto personale.
Sul piano economico, il Paese resta bloccato in un paradosso drammatico: ricco di risorse ma poverissimo di prospettive.
La Guinea possiede una delle più grandi riserve mondiali di bauxite, insieme a giacimenti di oro, ferro e manganese. Eppure, oltre la metà dei suoi quindici milioni di abitanti vive in condizioni di povertà estrema, secondo il Programma Alimentare Mondiale. La crescita non arriva alle periferie, le infrastrutture restano precarie, e la crisi alimentare aggrava una fragilità strutturale che nessuna riforma costituzionale può risolvere.
Il colpo di Stato di Doumbouya, nel settembre 2021, fu il primo di una lunga serie che avrebbe attraversato il Sahel — dal Mali al Niger, fino al Gabon — ridisegnando le mappe del potere in Africa occidentale. Ma, a differenza dei suoi omologhi che hanno scelto di rompere con la Francia e abbracciare la retorica filo-russa, il leader guineano ha preferito mantenere un profilo più cauto, rimanendo nell’orbita occidentale. È una scelta che gli consente di apparire più “affidabile” agli occhi delle cancellerie europee, pur senza rinunciare al controllo autoritario sul fronte interno.
Ufficialmente, la giunta promette che il referendum sia solo “una tappa verso il ritorno all’ordine costituzionale”. In realtà, per molti analisti, segna l’inizio di una nuova normalità militare: quella in cui il linguaggio della democrazia serve a legittimare un potere nato da un colpo di Stato.
Tommaso Maiorca – Agenzia Stampa Italia



