(ASI) Il vertice NATO del 2025 all’Aia si è chiuso con una decisione destinata a pesare a lungo: l’aumento delle spese militari al 5% del PIL entro il 2035. Un traguardo che, almeno sulla carta, dovrebbe rafforzare la deterrenza collettiva dell’Alleanza, ma che per molti Paesi europei rischia di tradursi in un salasso insostenibile sui bilanci pubblici e in nuovi sacrifici sociali.
L’incontro, il primo organizzato nei Paesi Bassi e costato alle casse pubbliche almeno 183 milioni di euro, è stato accompagnato da un’imponente macchina di sicurezza. Quasi 40mila uomini tra polizia e militari, cieli e mari blindati, quartieri della città trasformati in zone rosse: “Operazione Scudo Arancione” ha segnato un record di dispiegamento, lasciando tracce concrete sulla vita quotidiana degli abitanti e sull’ambiente.
Dietro la scenografia, il nodo politico era uno: convincere l’Europa ad accettare l’imposizione americana di un aumento della spesa militare. Alla fine, con mediazioni e compromessi, la linea di Washington ha prevalso.
Entro dieci anni, il 3,5% del PIL dovrà andare alla cosiddetta “difesa dura” – armi, munizioni, eserciti –, mentre l’1,5% sarà dedicato a cybersecurity, infrastrutture strategiche e intelligence. Una scelta che Trump ha imposto come condizione per ribadire la fedeltà all’articolo 5 del Trattato, cioè l’impegno alla difesa collettiva in caso di attacco a uno Stato membro.
Per l’Italia, che oggi destina circa la metà di quella cifra alla difesa, la nuova soglia significa trovare tra i 30 e i 40 miliardi di euro in più ogni anno. Un intero bilancio aggiuntivo, da finanziare in un contesto in cui Bruxelles ha già aperto procedure per deficit eccessivo. Più tasse o tagli alla spesa sociale: non si scappa. Eppure Roma non si è limitata ad accettare. Al contrario, Giorgia Meloni è stata tra i promotori più attivi dell’aumento, presentandolo come un passo inevitabile per “rafforzare la sicurezza nazionale”.
L’Alleanza, tuttavia, non ha discusso solo di percentuali. Il vertice ha riaffermato il sostegno militare all’Ucraina, pur escludendo Volodymyr Zelensky dal tavolo formale per non urtare Trump. Una scelta simbolica, che dice molto sulla direzione intrapresa: Kyiv resta partner, ma lontano dalla prospettiva di un ingresso nell’Alleanza. Parallelamente, la NATO ha designato la Russia come minaccia a lungo termine, ha messo nel mirino l’Iran e invitato a vigilare sul ruolo della Cina.
Non a caso, a margine del summit si è tenuto anche il Forum dell’Industria della Difesa. Qui leader politici e colossi dell’armamento hanno parlato senza giri di parole della necessità di una produzione “su scala di guerra”. Von der Leyen, in un discorso diretto all’industria bellica, ha sottolineato che il futuro dell’Europa “si gioca non solo al fronte in Ucraina ma anche nelle vostre fabbriche”, promettendo nuove sinergie tra tecnologie civili e militari.
Il risultato finale è un’Alleanza che si ridisegna: meno parole, più muscoli. La dichiarazione conclusiva del vertice si riduce a cinque paragrafi, quasi un manifesto minimalista. L’obiettivo è chiaro: una NATO più regionale, concentrata sul fianco est e sulla minaccia russa, monotematica sul piano militare e più europea nella ripartizione dei costi. Ma dietro la retorica della “pace euro-atlantica” si intravede il prezzo reale: welfare eroso, diritti sociali compressi, miliardi di euro drenati verso arsenali e nuove fabbriche di armamenti.
All’Aia si è scritta una pagina di svolta. Per alcuni è la necessaria assicurazione contro la Russia. Per altri è la consacrazione di una deriva che mette la guerra – e i profitti dell’industria bellica – davanti a tutto. La verità, probabilmente, sta nella tensione tra queste due visioni, e sarà il futuro a dire se il 5% promesso servirà davvero a rafforzare la sicurezza collettiva o se sarà ricordato come l’ennesima cambiale firmata dai cittadini europei a favore della geopolitica e dell’economia di guerra.
Tommaso Maiorca – Agenzia Stampa Italia



