(ASI) Paetongtarn Shinawatra, la premier più giovane della Thailandia, è stata destituita dalla Corte Costituzionale dopo appena un anno di governo. La decisione, legata a un colloquio telefonico con l’ex leader cambogiano Hun Sen durante una crisi di confine, segna l’ennesimo capitolo del conflitto ventennale tra la famiglia Shinawatra e il blocco conservatore-militare che domina il Paese.
Il 15 giugno 2025, con la tensione al confine tra Thailandia e Cambogia già alle stelle, una registrazione segreta ha scosso l’opinione pubblica. Nel file audio, confermato autentico, la premier chiamava Hun Sen “zio” e criticava apertamente i vertici militari thailandesi, aggiungendo una frase che si è rivelata fatale: “Se vuoi qualcosa, dimmelo e me ne occuperò io”.
Per i giudici costituzionali, con un voto di 6 a 3, quella frase ha rappresentato un atto di slealtà istituzionale, la prova di una violazione etica grave. L’accusa: aver compromesso la sicurezza nazionale e aver anteposto la relazione personale con Hun Sen agli interessi del Paese.
Pochi giorni dopo la diffusione della telefonata, lo scontro di confine è degenerato in un conflitto di cinque giorni che ha provocato decine di morti e centinaia di migliaia di sfollati, alimentando il sentimento di tradimento nei confronti della premier.
Non è la prima volta che la Corte Costituzionale cambia bruscamente la rotta della politica thailandese. Anzi, è quasi un copione consolidato: negli ultimi due decenni cinque premier sono stati rimossi per via giudiziaria, mentre altri due governi sono caduti per colpi di Stato militari.
Paetongtarn è il quarto membro della dinastia Shinawatra a subire la stessa sorte: suo padre Thaksin, miliardario e figura divisiva, fu deposto dal golpe del 2006 e costretto all’esilio per oltre 15 anni; sua zia Yingluck venne rimossa nel 2014, preludio a un nuovo colpo di Stato; suo zio Somchai Wongsawat fu estromesso nel 2008 da una sentenza della stessa corte.
La stessa Paetongtarn era salita al potere nel 2024 dopo che il premier Srettha Thavisin, anch’egli espressione del Pheu Thai, era stato destituito in circostanze simili.
Per i giudici, la giovane premier “ha minato la fiducia pubblica nella leadership, anteponendo legami privati all’interesse collettivo”. Secondo l’opposizione, il suo atteggiamento avrebbe persino incoraggiato l’aggressività cambogiana.
Paetongtarn si è difesa spiegando che le sue parole erano una tecnica di negoziazione, un tentativo di evitare l’escalation militare e di salvare vite. Dopo la sentenza ha ringraziato i cittadini e ribadito: “Ho sempre cercato di proteggere le vite del nostro popolo, civili e militari. Amo la mia nazione, la religione e la monarchia quanto ogni altro thailandese”.
Al di là del caso specifico, molti analisti vedono la vicenda come un’ulteriore dimostrazione del peso sproporzionato dell’apparato conservatore-militare e giudiziario.
“Un pannello di nove giudici non eletti decide il futuro politico del Paese, scavalcando il mandato popolare”, denuncia Napon Jatusripitak dell’ISEAS-Yusof Ishak Institute di Singapore.
È la fotografia di una Thailandia intrappolata in un “giubbotto di forza” istituzionale: governi eletti che cadono uno dopo l’altro, senza che le spinte riformiste trovino spazio, mentre il blocco tradizionalista mantiene il controllo senza mai vincere realmente alle urne.
La caduta di Paetongtarn non è solo una crisi di governo: rappresenta un colpo durissimo al marchio politico “Shinawatra”, che da oltre vent’anni alterna vittorie elettorali e sconfitte giudiziarie.
Il Pheu Thai ora si trova in una posizione fragile: due dei suoi tre candidati premier sono stati estromessi; rimane solo Chaikasem Nitisiri, 77 anni, ex ministro della giustizia, figura debole per tenere insieme una coalizione già instabile.
Tommaso Maiorca – Agenzia Stampa Italia



