(ASI) Venerdì scorso i presidenti di Cina e Stati Uniti, Xi Jinping e Donald Trump, si sono sentiti al telefono. Durante la conversazione, i due leader hanno parlato delle principali questioni a livello bilaterale: commercio, investimenti e l'affare TikTok. Cinque giorni prima, a Madrid, si era chiuso il quarto round negoziale bilaterale, giudicato positivo e fruttuoso da entrambe le parti. Tuttavia, il lavoro diplomatico si annuncia ancora complesso. Ne ha parlato Andrea Fais, collaboratore di ASI, in un articolo pubblicato su Radio Cina Internazionale (CGTN) per la rubrica "Opinioni", che proponiamo qui di seguito in versione integrale.
Dopo la fine del quarto round negoziale di Madrid tra le delegazioni di Cina e Stati Uniti, nella giornata di venerdì i presidenti dei due Paesi hanno parlato al telefono scambiando opinioni ed impressioni sul futuro delle relazioni bilaterali. Stando alle dichiarazioni ufficiali, si è trattato di una conversazione “pragmatica, positiva e costruttiva”, ovvero di “uno scambio sincero e approfondito” che ha riguardato non soltanto i rapporti tra le prime due economie mondiali ma anche altre “tematiche di interesse comune”.
Xi Jinping ha rimarcato la grande importanza dei legami sino-statunitensi e della loro stabilità in termini di vantaggio reciproco e di beneficio per il mondo intero. Il presidente cinese ha ribadito l’approccio di Pechino alla diplomazia, basato sui principi del rispetto reciproco, della coesistenza pacifica e della cooperazione dal mutuo vantaggio, elogiando lo “spirito di eguaglianza, rispetto e beneficio vicendevole” dei recenti colloqui tra le parti ed invitando gli Stati Uniti ad evitare l’adozione di restrizioni commerciali unilaterali che possano compromettere i risultati sin qui raggiunti.
Durante la chiamata tra i due leader, c’è stato spazio anche per la storia e i suoi potenti contenuti simbolici. L’ottantesimo anniversario della vittoria cinese nella Seconda Guerra Mondiale, celebrato con la solenne parata del 3 settembre scorso a Pechino ed altri momenti commemorativi, ha inevitabilmente richiamato anche l’alleanza sino-statunitense nella comune lotta su scala mondiale contro le potenze dell’Asse. Sebbene i quattordici anni di resistenza nazionale (1931-1945) e la politica del Fronte Unito (1937-1945) siano stati fattori determinanti per fiaccare e respingere gli occupanti giapponesi, il supporto aereo statunitense contribuì a contrastare l’avanzata nemica sul fronte terrestre. Sia Xi che Trump hanno ricordato quella vicenda: il primo esortando ad “onorare i martiri, preservare la memoria storica, amare la pace e costruire un futuro migliore”, il secondo reiterando i giudizi positivi già espressi qualche tempo fa sulla parata cinese, definita “davvero impressionante”.
Al termine dei negoziati di Madrid, le due delegazioni avevano confermato le sensazioni positive emerse dai precedenti incontri di Ginevra, Londra e Stoccolma, parlando di un confronto “sincero, approfondito e costruttivo” e comunicando di aver raggiunto “un quadro di consenso fondamentale sulla risoluzione delle questioni relative a TikTok attraverso la collaborazione, sulla riduzione delle barriere agli investimenti e sul sostegno ad una significativa cooperazione economica e commerciale”.
Con particolare riferimento alla complessa vicenda di TikTok, la piattaforma social di proprietà della cinese ByteDance, su cui le stesse delegazioni si erano focalizzate durante la due-giorni in terra spagnola, il governo cinese dichiara di “rispettare l’autonomia aziendale e supportare negoziati commerciali conformi alle regole di mercato, orientate verso soluzioni equilibrate che rispettino la normativa e i regolamenti cinesi”, auspicando che Washington garantisca “un contesto commerciale aperto, equo e non discriminatorio per gli investimenti delle imprese cinesi”.
Un recente editoriale di Xinhua osserva che gli esiti dei colloqui “sono sati ottenuti con fatica” e che “le loro fondamenta rimangono fragili”. Malgrado i passi in avanti, infatti, gli Stati Uniti “continuano ad estendere le sanzioni contro entità cinesi”. Se da un lato Pechino ha ribadito l’intenzione di rispettare pienamente la volontà delle imprese e di supportarle nella conduzione dei negoziati d’affari su un terreno di parità secondo i principi del mercato, dall’altro Washington mantiene una postura contraddittoria, non sempre comprensibile e quasi mai prevedibile.
Donald Trump sa benissimo che nella partita con la Cina non potrà mai ottenere una ‘vittoria pigliatutto’, come invece è avvenuto con l’Unione Europea, che ha di fatto capitolato di fronte alle perentorie richieste economiche, commerciali e militari della Casa Bianca. Troppi sono gli interessi in ballo, determinanti ai fini della tenuta economica degli Stati Uniti, per poter mostrarsi arrogante verso il gigante asiatico. Non soltanto le terre rare, di cui molto si è discusso, a volte anche a sproposito, ma numerosi altri settori – dalla tecnologia alla manifattura, dall’agricoltura alla meccanica, dall’automotive alla farmaceutica – connettono le prime due economie mondiali in maniera molto più stretta di quanto si pensi.
Nel 2024, l’interscambio di beni tra i due Paesi ha raggiunto un volume pari a 688,28 miliardi di dollari, confermando gli Stati Uniti quale principale destinazione delle esportazioni cinesi di merci e seconda fonte di importazioni. Lo scorso anno, il mercato cinese ha assorbito il 7% delle esportazioni totali statunitensi mentre i beni cinesi hanno coperto il 13,8% delle importazioni totali statunitensi. Malgrado il deficit commerciale resti ancora elevato per la potenza nordamericana, i dati di lungo periodo mostrano che l’export a stelle e strisce ha registrato una crescita enorme: tra il 2001, anno in cui il colosso asiatico fece ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, e il 2024, il valore dei beni statunitensi venduti in Cina è aumentato del 648,4%, passando da 19,18 a 143,55 miliardi di dollari. Senza considerare il surplus che Washington può vantare con la Cina sul fronte del commercio di servizi (+26,58 miliardi di dollari nel 2023).
Secondo i dati forniti da Americans for Free Trade, una coalizione formata da 173 tra imprese, associazioni di categoria e sindacati statunitensi, i dazi imposti in forza della Sezione 301 del Trade Act del 1974 sono costati ai cittadini statunitensi mediamente 3,8 miliardi di dollari al mese dall’inizio della guerra commerciale nel 2018. Il peso in termini occupazionali della catena di approvvigionamento statunitense viene inoltre quantificato in circa 44 milioni di impiegati: lavoratori e rispettive famiglie messi a rischio negli ultimi sette anni dalle stesse politiche discriminatorie della Casa Bianca.
I timori correlati all’aumento dei prezzi al consumo generano tradizionalmente molta apprensione nel Paese, come già evidenziava lo scorso anno, prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca, un sondaggio condotto da YouGov per il Cato Institute, think-tank di area libertaria vicino alla destra repubblicana. Stando ai numeri di quell’inchiesta, il 66% degli intervistati ritiene che il commercio globale sia un bene per l’economia statunitense, mentre il 58% di loro afferma che il commercio globale ha contribuito ad innalzare la propria qualità della vita. Il 75%, ovvero tre quarti degli interpellati, si dichiarano preoccupati che i dazi possano aumentare il costo dei prodotti al dettaglio, preferendo in molti casi la stabilità dei prezzi al rilancio della manifattura nazionale.
Se alcuni circoli strategici di orientamento neoconservatore continuano ad indicare la Cina come un nemico da isolare, anche a costo di scaricare su famiglie e imprese statunitensi le conseguenze dei dazi, il buon senso, ancor prima che le leggi del mercato, suggerisce di agire in direzione esattamente contraria. Gli Stati Uniti, cioè la nazione che più di tutte le altre ha storicamente contribuito al processo di globalizzazione, non possono oggi pensare, per interessi particolari o finalità egemoniche, di ribaltare il tavolo e calpestare le regole del sistema multilaterale, imponendo dazi e restrizioni al resto del pianeta e sconvolgendo quella stessa catena di approvvigionamento su cui si sono strutturati la produzione e il commercio globale nel corso degli ultimi trentacinque anni.
Dietro il pensiero politico dell’America First! c’è una sostanziale logica di potenza: non un’assoluta novità di merito nella dottrina di politica estera, ma certamente di metodo. Squarciato il velo della diplomazia del passato, Washington ormai espone al mondo le sue intenzioni e le sue posizioni senza remore né scrupoli. Ogni mossa sembra essere soppesata in funzione dei soli rapporti di forza. Così si spiegano, da un lato, il trattamento riservato ad Europa, India e Brasile, e dall’altro la prudenza sin qui mantenuta nei rapporti con la Cina, al di là di alcune goffe minacce o dichiarazioni di facciata.
Anche in tema di commercio e investimenti, Pechino sfoggia la sua consueta postura diplomatica, ispirata al principio di eguaglianza tra nazioni sovrane, alla pratica del multilateralismo e alla salvaguardia del sistema internazionale basato sull’ONU. C’è ancora molto da lavorare in questo senso, non meramente per limitarsi a risolvere le incomprensioni sui dazi e su TikTok ma, più estesamente, per convincere gli Stati Uniti ad abbandonare il loro eccezionalismo e la loro ossessione per il mantenimento ad ogni costo della supremazia strategica su scala mondiale. In un mondo sempre più caratterizzato da un assetto multipolare, la coesistenza pacifica è non solo possibile ma anche e soprattutto necessaria.
Andrea Fais - Radio Cina Internazionale (CGTN)



