Cina. Dopo i super-dazi di Trump, Pechino e l'Asia si riorganizzano per emanciparsi

XI copy copy(ASI) Da quando Donald Trump ha annunciato i suoi dazi generalizzati al resto del mondo, la tensione si è fatta altissima e i continui sobbalzi dei mercati finanziari hanno catalizzato per giorni l'attenzione dei media internazionali. Sebbene il cosiddetto "Liberation Day" fosse stato annunciato da tempo, a lasciare gli osservatori a bocca aperta è stato il metodo bizzarro con cui la Casa Bianca ha calcolato l'insieme delle barriere che gli altri Paesi applicherebbero ai prodotti statunitensi.

Le percentuali indicate dal tycoon sull'ormai celebre tabella mostrata in conferenza stampa sono state infatti ottenute dividendo il deficit commerciale di beni degli Stati Uniti con il Paese di riferimento per il valore delle importazioni statunitensi da quello stesso Paese. Il risultato è stato moltiplicato per cento, ricavando il dato messo per iscritto. Al dazio altrui fittizio Trump ha così risposto con un dazio vero, presentandolo come dimezzato rispetto al primo. A titolo esemplificativo, se il dazio (inventato) verso gli Stati Uniti è al 30%, Washington dice di rispondere con un "magnanimo" 15%. Da qui, ovviamente, le reazioni delle decine di Paesi colpiti. 

Al di là dello scontro politico con i vertici dell'Unione Europea, non certo inedito per The Donald e i suoi più stretti collaboratori, le tariffe più elevate annunciate dalla Casa Bianca hanno riguardato soprattutto i mercati asiatici.

In testa, ovviamente, c'è la Cina, presa di mira con un'iniziale 34%, automaticamente salito al 54% considerando il 20% già approvato in precedenza, poi aumentato vertiginosamente al 104% per ragioni "punitive", poco dopo al 145%, ed ora sul punto di raggiungere il 245% per alcuni beni ritenuti cruciali. La colpa di Pechino? Quella di non essersi piegata alle logiche di forza di Trump ed aver reagito con l'approvazione di contro-dazi, che comunque si sono fermati al 125%, e di restrizioni all'export di alcune terre rare verso gli Stati Uniti.

Viene poi la Cambogia, colpita da un dazio del 49%, seguita dal Laos, cui Trump ha promesso una "zavorra commerciale" del 48%, dal Vietnam, con una tariffa del 46%, dallo Sri Lanka e dal Myanmar, entrambi con il 44%. Al Bangladesh è stato innalzato un muro del 37%, alla Thailandia del 36%, ad Indonesia e Taiwan del 32%. Inferiori numericamente ma perfino più significativi dal punto di vista geopolitico sono i dazi verso tradizionali alleati quali Giappone (24%) e Corea del Sud (25%), nonché quelli adottati nei confronti dell'India (26%), partner sul quale gli strateghi statunitensi hanno scommesso più di una carta nel corso degli ultimi otto anni, cioè da quando è stato riattivato il Quadrilateral Security Dialogue (Quad) in funzione anti-cinese.

Emblematico, infine, il caso di Singapore, con cui Washington intrattiene da oltre vent'anni un accordo di libero scambio (USSFTA), entrato in vigore il primo gennaio 2004. La città-stato asiatica, a differenza dei Paesi vicini, è un importatore netto dagli States. I dati ufficiali della Rappresentanza al Commercio degli Stati Uniti mostrano un surplus commerciale di beni con Singapore pari a 2,8 miliardi di dollari, in crescita dell'84,8% rispetto all'anno precedente. Eppure, anche la piccola "nazione prodigio" del Sud-est asiatico si è vista inspiegabilmente imporre un dazio del 10%.

L'ex primo ministro Lee Hsien Loong sostiene senza mezzi termini che gli Stati Uniti vogliono smantellare il cosiddetto principio della "nazione più favorita" (MFN), uno dei pilastri su cui si regge l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), secondo cui ciascuna nazione non può imporre su una stessa categoria merceologica dazi diversi da Paese a Paese, ma deve garantire parità di trattamento a tutti i suoi partner commerciali. «Ciò significa che per i Paesi piccoli, che hanno un potere contrattuale molto limitato, le regole sono queste e che quindi godiamo dello stesso accesso al mercato di cui godono i Paesi grandi, e beneficiamo del potere contrattuale dei Paesi più grandi», ha detto lunedì scorso Lee, durante una conferenza del Congresso Nazionale dei Sindacati di Singapore (NTUC).

Vanno poi considerati i Trattamenti Speciali e Differenziati (SDT), previsti dalla WTO per le economie in via di sviluppo, consentendo loro, ad esempio, di accedere ai mercati dei Paesi avanzati senza condizioni di perfetta reciprocità o approvando misure particolari per incrementare il loro commercio estero. Non certo un "privilegio" o un "abuso" ai danni degli Stati Uniti, come sostengono Trump e Vance, ma una sorta di calibro per impedire che, durante la loro fase di transizione, i mercati meno sviluppati vengano "divorati" da quelli più competitivi.  

Di certo, uno dei primi effetti delle decisioni della Casa Bianca è stato quello di aver spaccato il mondo tra leader accondiscendenti, cioè intenzionati a trattare, e leader contrariati, restii ad accettare un colpo così duro. Fra le tre maggiori economie dell'Asia Orientale si nota una netta divergenza di approccio, con Tokyo e Seoul disponibili, pur con delle riserve, a rivedere le dinamiche commerciali verso gli Stati Uniti, contrariamente a Pechino, che invece si è subito detta «pronta a combattere fino alla fine».

C'è una spiegazione evidente. A differenza di Giappone e Corea del Sud, infatti, la Cina ha le proverbiali spalle robuste per rispondere a tono:

  • È la prima potenza commerciale del pianeta, con un volume di import-export complessivo pari a 5.980 miliardi di dollari nel 2024, un dato in crescita del 5% rispetto all'anno precedente. L'incremento sale al 5,5% in relazione al solo commercio coi partner del BRICS e al 6,4% se si prendono in considerazione i Paesi aderenti all'Iniziativa Belt and Road (BRI), cioè la Nuova Via della Seta;
  • Gode della piena sovranità politica e militare;
  • Dispone della più grande classe media al mondo [circa 707 milioni di persone, già raggiunti nel 2018 secondo il Pew Research Center] e del secondo più grande mercato di consumo al mondo, che può riassorbire parte dell'eventuale mancato export verso gli Stati Uniti;
  • Controlla gran parte del mercato globale delle terre rare, gli ormai celebri 17 elementi chimici essenziali per l'industria hi-tech, tanto che secondo le stime della IEA la Cina rappresenterebbe circa il 61% della produzione e il 92% della lavorazione a livello mondiale;
  • Il Partito Comunista Cinese è in grado di mobilitare socialmente la popolazione per respingere quelle che vengono percepite come minacce esistenziali alla nazione.

In uno dei passaggi più rilevanti del suo intervento di lunedì scorso, Lee Hsien Loong ha precisato: «A livello internazionale penso che dobbiamo continuare a sostenere il libero commercio, il multilateralismo e la WTO per cercare di mantenere in vita il sistema e non farlo crollare, malgrado gli Stati Uniti ne stiano abbandonando le regole. Gli Stati Uniti sono la più grande economia. Dal momento che se ne tirano fuori, ciò avrà un impatto significativo sul resto del mondo, ma il resto del mondo è ancora qui e, se riusciamo a lavorare insieme, penso che abbiamo buone possibilità di tenere in piedi il sistema».

È proprio qui che entra in scena la Cina, ponendosi quale baluardo globale del libero commercio di fronte ad una superpotenza a stelle e strisce che, se vuole chiudere le porte del proprio mercato all'Asia, o a gran parte di essa, dovrebbe altrettanto coerentemente ritirare i suoi contingenti militari dalla regione. Sebbene dalle nostre parti sia un tema ormai scomparso dal dibattito mediatico, troppo sangue è stato versato in guerre devastanti che, dall'Afghanistan alla Corea passando per Vietnam, Laos e Cambogia, hanno minato per decenni la stabilità dell'Asia e compromesso le opportunità di sviluppo di interi territori.

Il Partenariato Economico Globale Regionale (RCEP), entrato in vigore il primo gennaio 2022, ha già creato un'enorme area di libero scambio tra Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam. Con un potenziale commerciale ancora da esprimere appieno, l'accordo è destinato a rivoluzionare il commercio e gli investimenti nell'Asia-Pacifico da qui ai prossimi dieci anni, malgrado le dispute e le incomprensioni ancora esistenti tra alcuni degli attori coinvolti, sulle quali Washington non perde mai occasione per intromettersi secondo l'antica logica del divide et impera.

Con la mossa di Trump, però, nessuno nella regione può più dirsi al sicuro. Nemmeno gli alleati più fidati degli Stati Uniti. Pur già calendarizzato da tempo, il recentissimo viaggio del presidente cinese Xi Jinping in Vietnam, Malesia e Cambogia va proprio in questa direzione. Il percorso non sarà facile, né esente da contraccolpi, ma un dato è certo: oggi l'Asia può farcela da sola.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

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