Il caso Pegasus riaccende lo scontro fra Budapest e Bruxelles

(ASI) Strasburgo – Un programma spia sofisticato. Cellulari sotto stretta osservazione. Legami politici controversi. Sullo sfondo, la fragile relazione intercorrente fra l’Ungheria di Viktor Orban e l’Unione europea.

Sembra la trama di un avvincente film di spionaggio internazionale. Eppure, i risvolti rischiano essere fin troppo concreti. Al centro della vicenda, lo spyware Pegasus di fabbricazione israeliana.

Il programma di ultima generazione può essere facilmente installato da remoto sui telefonini senza che l’utente se ne accorga. Una volta aggirati i sistemi di sicurezza del dispositivo, Pegasus agisce come una vera e propria spia digitale. Chiamate, messaggi, posta elettronica, foto, contatti, conversazioni: niente può sfuggirgli. Con buona pace dell’ignaro proprietario.

Proprio a causa della loro efficienza, tali sfuggenti programmi vengono spesso utilizzati sia da pubblici sia da privati per mettere sotto sorveglianza persone sospettate di attività illecite. Ma cosa succede se a farne uso è uno Stato membro dell’Ue? Cosa succede se a essere spiati sono semplici cittadini contro cui non vi è alcuna accusa giudiziaria?

Ancora una volta, siamo ben lontani dalla fantascienza. Già nel 2021, un gruppo internazionale di giornalisti investigativi, ricercatori, esperti ed esponenti di organizzazioni non governative aveva scoperto che le cancellerie di numerosi paesi membri Ue avevano spiato almeno 50.000 cittadini in mancanza di una regolare procedura giudiziaria.

Il “Pegasus Project” – così si chiama il collettivo – aveva lanciato un allarme su un vero “abuso” del programma israeliano da parte delle istituzioni pubbliche. Un uso distorto orientato perlopiù a “scopi politici”, ovvero a intimidire critici, oppositori, cronisti intenti ad approfondire scomodi casi di corruzione.

La rivelazione scoppiò come una bomba in Europa. D’altronde, le implicazioni per i diritti e le libertà umane fondamentali e per i valori democratici su cui l’Unione si fonda potrebbero essere gravissime.

Nel 2022, l’Europarlamento decise di non perdere tempo e istituì una Commissione d’inchiesta incaricata di far luce sull’impiego distorto di Pegasus a opera degli esecutivi comunitari.

L’indagine – durata oltre un anno – si è conclusa qualche settimana fa, con la presentazione in sessione plenaria a Strasburgo di una corposa relazione. Il documento, citando le inchieste del Pegasus Project e di alcune organizzazioni non governative quali Amnesty International, rivela che il programma spia è stato venduto da Israele ad almeno quattordici paesi membri Ue nel corso degli anni precedenti.

Uno dei casi più preoccupanti, tuttavia, riguarda proprio l’Ungheria. Stando a quanto scoperto, sin dal 2021 più di trecento magiari sarebbero stati messi sotto sorveglianza in assenza di una regolare autorizzazione giudiziaria, in flagrante violazione delle norme europee. Il documento accusa senza mezzi termini il governo di Budapest di aver ordito una “calcolata e strategica campagna mirata a distruggere la libertà di espressione” e aver instaurato un “regime di molestie, ricatti, minacce e pressioni”.

Tra i bersagli – tutti rigorosamente critici nei confronti del presidente Orban – figurano nomi illustri. C’è Szabolcs Panyi di “Direkt36”, una delle poche testate indipendenti ancora in vita. In passato, il giornalista è stato più volte tacciato di “Orbanofobia” dallo staff presidenziale. Accanto a lui i colleghi Zoltan Varga del portale “24.hu” e la cronista investigativa Brigitta Csikász, autrice di inchieste scottanti sull’uso poco trasparente dei fondi europei.

E poi c’è l’attivista Adrien Beauduin. Il cittadino belga è dottorando di ricerca in studi di genere presso la Central European University, ateneo riconducibile all’acerrimo nemico George Soros. E ancora vi è Gyorgy Gémesi, sindaco ed esponente di un partito di opposizione, assieme ad alcuni colleghi.

L’elenco stilato dalla Commissione d’inchiesta include persino personaggi di alto livello vicini a Orban. Sono menzionati la guardia del corpo del Presidente della Repubblica, un’ex ambasciatrice in Cina poi divenuta consigliere presidenziale, un ex Segretario di stato chiamato a vigilare sull’espansione della centrale nucleare di Paks a opera del colosso russo Rosatom.

Il gabinetto di Budapest si è finora mostrato piuttosto reticente a fornire spiegazioni e ha preferito barricarsi dietro “l’interesse nazionale”. Orban ha affermato che la legislazione in materia consente, in specifici casi, di avviare la sorveglianza anche in assenza di previa autorizzazione giudiziaria. Il presidente, in ogni caso, ha descritto la questione come un tema di “sicurezza nazionale”, lasciando intendere di non gradire interferenze esterne.

Eppure, a preoccupare Bruxelles è il fatto che, in sostanza, i bersagli di Pegasus risultano in larga misura essere oppositori di lunga data di Orban. Nella loro relazione, i membri della Commissione d’inchiesta respingono – in quanto “non convincente” – la motivazione della sicurezza nazionale, giudicandone troppo indeterminata la formulazione.

E non finisce qui. “Le prove indicano che le persone sono state spiate allo scopo di ottenere un controllo politico e finanziario ancora maggiore sulla sfera pubblica e il mondo dei media”, scrivono i relatori. Un controllo “completo” – aggiungono – facilitato da un sistema legislativo, giuridico, amministrativo costruito dal Primo ministro a propria immagine e somiglianza.

“Il modello Orban ha creato un sistema in cui si possono prendere di mira avvocati, giornalisti, oppositori politici, organizzazioni della società civile. Il governo ha sistematicamente collocato i fedelissimi negli organi statali più importanti”, si legge nero su bianco. Sulla questione, peraltro, pesano pure due sentenze emesse in passato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, una delle quali ha definito “incapace di agire in maniera indipendente” l’agenzia nazionale che dovrebbe vigilare sulle operazioni di sorveglianza.

In seguito alla presentazione del documento, gli eurodeputati riuniti in sessione plenaria hanno approvato a larga maggioranza una risoluzione in cui chiedono a Budapest, tra le altre cose, di “ripristinare l'indipendenza della magistratura e degli organi di controllo” e “garantire un'autorizzazione giudiziaria indipendente e specifica” prima di avviare operazioni di sorveglianza.

La relazione della Commissione parlamentare e la risoluzione, lo ricordiamo, non riguardano unicamente l’Ungheria, bensì coinvolgono molteplici Stati membri Ue. Ma è senza dubbio il caso magiaro quello più interessante, anche perché s’inserisce in un quadro diplomatico in costante peggioramento da quando Orban è stato riconfermato presidente.

Il 15 settembre 2021 è stato raggiunto l’apice delle tensioni. L’Assemblea di Strasburgo in sessione plenaria ha impiegato parole durissime, affermando come l’Ungheria sia diventata “un’autocrazia elettorale”, dove la democrazia vige solo in apparenza. Gli eurodeputati hanno accertato – per la prima volta nella storia – l'esistenza di “un evidente rischio di violazione grave dei valori fondanti l'Unione”. Parallelamente hanno avviato una procedura finora inedita che potrebbe fortemente penalizzare Budapest togliendole il diritto di voto nei consessi decisionali comunitari.

Marco Sollevanti – Agenzia Stampa Italia

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