Orbán: “Gli ungheresi non vogliono le sanzioni contro la Russia”. E Bruxelles risponde picche

(ASI) Budapest – Si arricchisce di un nuovo capitolo l’animosa disputa che da anni imperversa fra l’Ungheria di Viktor Orbán e l’Unione europea. Nell’occhio del ciclone, questa volta, il rompicapo delle ripetute restrizioni imposte alla Federazione russa in seguito all’aggressione dell’Ucraina.

Il Primo ministro ha da poco divulgato i risultati del referendum indetto lo scorso novembre contro i nove pacchetti di sanzioni comunitarie. Sanzioni “rudimentali” e “dagli effetti disastrosi”, accusate di essere non solo inefficaci per Putin, ma anche assai dolorose per l’Europa.

Stando alle statistiche, la quasi totalità dei partecipanti concorda con la linea politica di Orbán. Oltre il 97% dei votanti disapprova il divieto di importazione del greggio russo e teme che per sostituirlo occorreranno molti anni assieme a “investimenti per centinaia di miliardi di fiorini”. Una percentuale identica correla “l’impennata delle bollette” al blocco delle forniture di gas e ritiene che la misura “minaccia sia il riscaldamento delle famiglie sia la stabilità dell'intera economia europea”. Medesimo dissenso si registra nei confronti della messa al bando di combustibili solidi e materie prime quali acciaio e legno, collegata al rincaro dei prezzi a carico delle famiglie.

Quasi il 98% dei votanti si oppone all’estensione delle sanzioni europee al settore nucleare. Ciò comporterebbe la sospensione dei lavori di ammodernamento e ampliamento della centrale ungherese di Paks, affidati dall’esecutivo di Orbán al colosso russo Rosatom. Un biasimo pressoché plebiscitario investe anche le restrizioni all’accesso di cittadini russi nel territorio dell’Unione. Un provvedimento che “lede in maniera significativa lo sviluppo del turismo magiaro” e il suo fiorente giro d’affari. Bocciata pure l’interdizione di fertilizzanti agricoli russi largamente impiegati a livello globale. La preoccupazione è che la decisione possa innescare nei paesi in via di sviluppo gravi carestie responsabili dell’incremento dei flussi migratori in Europa.

“Bruxelles sta devastando l’economia ungherese” va ripetendo da tempo il presidente. Dietro a toni così aspri, a polemiche così acute, dietro al costante richiamo alla protezione dell’interesse nazionale si nasconde molto più di una semplice diversità di vedute con i vertici di Bruxelles. Ad allarmare davvero la classe dirigente sono l’enorme dipendenza energetica e le consistenti relazioni finanziarie intercorrenti fra Budapest a Mosca. Elettricità, gas, materie prime sì, ma anche lauti contratti sottoscritti con le aziende di Putin. La costruzione di altri due reattori all’interno della centrale di Paks a opera di Rosatom ne è solo un esempio. E non è un caso che il corrispondente quesito referendario reciti: “Paks è garanzia di elettricità a basso costo per la nostra nazione. La sospensione dei lavori potrebbe condurre a un ulteriore aumento delle tariffe e a notevoli sconvolgimenti per i nostri approvvigionamenti”.

Ecco perché per Orbán il totale allineamento dei partecipanti alle posizioni del suo gabinetto acquisisce un’importanza vitale. “I risultati sono evidenti. Il 97% degli ungheresi rifiuta queste sanzioni rovinose. Ci impegneremo alacremente affinché la loro voce venga ascoltata a Bruxelles” promette il Primo ministro. Alle affermazioni trionfali si è unita da qualche giorno una nuova campagna pubblicitaria governativa. Il filmato di trentacinque secondi stigmatizza le restrizioni “che non hanno fatto cessare la guerra, ma hanno duramente colpito l’economia”. Elenca come conseguenze nocive il prezzo dell’energia alle stelle, il balzo dell’inflazione, i vistosi rincari dei generi alimentari come conseguenze. Alla fine del video, la voce fuori campo annuncia: “Le sanzioni ci stanno distruggendo. È ora che la voce del popolo ungherese giunga fino a Bruxelles!”.

Eppure, non tutti la pensano così. Sin dalla sua indizione a novembre, la consultazione della discordia ha generato non poche obiezioni. Gli osservatori indipendenti hanno parlato di una “operazione fuorviante”, giudicando il linguaggio dei quesiti referendari “eccessivamente allarmistico” e “fin troppo allineato con le idee della maggioranza politica”. Dagli scranni del Parlamento di Budapest, le opposizioni hanno incolpato Orbán di aver manipolato in maniera ipocrita l’orientamento dell’opinione pubblica. Nel mirino delle accese contestazioni, in particolare, vi è l’abitudine del Primo ministro di descrivere le sanzioni come “provvedimenti di Bruxelles” o “provvedimenti imposti dalle istituzioni di Bruxelles”, quando in realtà persino i rappresentanti magiari hanno sempre votato per la loro approvazione, assieme ai delegati di tutti gli altri Stati membri.

Tiene banco, poi, la diatriba sulla percentuale esatta degli aderenti alla consultazione. Il dato è rilevante, in quanto aiuta a capire l’orientamento della popolazione e a inquadrare meglio l’effettivo consenso riscosso dalle posizioni di Orbán. A tal proposito, nonostante il presidente tratteggi come favorevoli “il 97% degli ungheresi”, lo stesso ufficio stampa del governo ammette che sono stati poco più di un milione e trecentomila i cittadini votanti. Un numero piuttosto contenuto, considerando che l’Ufficio Elettorale Nazionale identifica in oltre otto milioni e duecentomila il totale degli aventi diritto al voto.

E se la speranza era quella di sfruttare la consultazione per indurre l’Europa a modificare il proprio atteggiamento sulle restrizioni, sembra che Orbán – almeno per il momento – dovrà rassegnarsi di fronte al gelo di Bruxelles. La Commissione europea, infatti, commentando la diffusione dei risultati ha risposto picche, limitandosi a prendere atto della “scarsissima partecipazione dei cittadini alla consultazione”.

Il portavoce dell'Ue per gli affari esteri, Peter Stano, ha spiegato che le sanzioni vengono comminate in base “alla condotta delle forze russe in Ucraina e alla loro palese violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”. Stano ha lasciato intendere senza troppi giri di parole che non sarà certo un singolo governo a influenzare l’atteggiamento dell’Unione: “Quando ci sarà una decisione su un eventuale prossimo pacchetto di sanzioni o sulla modifica dei pacchetti esistenti, sarà una decisione che i 27 Stati membri prenderanno all'unanimità”.

Marco Sollevanti – Agenzia Stampa Italia

 
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