(ASI) È cominciato ieri dalle Isole Salomone il tour del ministro degli Esteri cinese Wang Yi nel Sud del Pacifico, che proseguirà nei prossimi giorni in altre nazioni della regione: Kiribati, Samoa, Figi, Tonga, Vanuatu, Papua Nuova Guinea e Timor Est. Come riporta Xinhua, Wang e il primo ministro salomoniano Manasseh Sogavare hanno espresso la volontà di costruire «relazioni ferree ed una profonda cooperazione bilaterale».
A meno di tre anni dall'avvio delle relazioni diplomatiche ufficiali, le due parti hanno concordato di unire gli sforzi per realizzare alcuni grandi progetti fiore all'occhiello dell'iniziativa Belt and Road (BRI) ed estendere la cooperazione pragmatica negli ambiti dell'agricoltura e della pesca, del legname, dei minerali, della sanità e del contrasto alla pandemia, dell'intervento e del soccorso in caso di calamità naturali. Altre due direttrici di cooperazione intendono: approfondire gli scambi tra esperienze per quanto riguarda il processo di lavorazione dei prodotti, l'incubazione industriale e le zone economiche speciali; ed aiutare le Isole Salomone a promuovere la propria capacità di auto-sviluppo e ad accelerare l'industrializzazione e la modernizzazione.
Dal canto suo, Sogavare ha sottolineato come la Cina sia il maggior partner delle Isole Salomone per quanto riguarda le infrastrutture di base ed un partner di sviluppo affidabile, ringraziando il colosso asiatico per le forniture mediche inviate durante la pandemia, tra cui materiale per lo svolgimento di test diagnostici rapidi sulla popolazione e l'invio di squadre mediche sul posto. Wang ha invece riportato l'apprezzamento del suo governo per «la ferma determinazione delle Isole Salomone nella tutela dei propri interessi nazionali» ed il forte desiderio di sviluppare una cooperazione amichevole con il gigante asiatico, a partire dall'adesione alla politica di 'Una sola Cina', avvenuta nel 2019, quando il governo di Sogavare votò a favore della rottura dei rapporti con Taipei e del simultaneo avvio di quelli con Pechino.
Protettorato britannico sin dalla fine del XIX secolo, quando questi territori furono oggetto di una contesa coloniale tra Regno Unito, Impero Tedesco e Stati Uniti, dal 1978 le Isole Salomone sono uno dei Reami del Commonwealth sparsi nel mondo, diminuiti a quindici dopo l'addio dello scorso anno di Barbados, dichiaratasi repubblica indipendente. Secondo tale istituto, il capo di Stato di ogni Reame resta la Regina Elisabetta II d'Inghilterra, rappresentata localmente da un governatore generale, attualmente il nativo David Okete Vuvuiri Vunagi, con poteri costituzionalmente limitati rispetto al primo ministro.
Negli ultimi anni, tra i circa 700.000 abitanti delle sei isole principali e delle oltre 900 isole più piccole che formano le Salomone, è cresciuto il consenso popolare attorno all'idea di proteggere e rafforzare la sovranità e l'indipendenza. Sulla base dei Cinque Principi di Coesistenza Pacifica, che ispirano la dottrina di politica estera della Cina sin dal 1955, Pechino ha più volte affermato di sostenere la volontà delle nazioni del Pacifico Meridionale di emanciparsi pienamente dal loro passato coloniale e dai vincoli internazionali che ne derivano.
Non erano mancate le tensioni durante il processo politico interno che, come già accennato, ha portato le Isole Salomone a chiudere le relazioni con Taiwan per riconoscere la Repubblica Popolare Cinese, adeguandosi così a quanto stabilito dalla Risoluzione ONU n. 2758 del 1971, in anticipo di un paio d'anni sull'analoga decisione presa dal Nicaragua nel 2021, che ha portato in tutto a sette il numero degli alleati persi da Taipei da quando la governatrice Tsai Ing-wen, alla guida della Coalizione Pan-Verde (pro-indipendenza), è salita al potere nel 2016.
Nel vertice di ieri con Sogavare, Wang ha precisato che la Cina e le Isole Salomone, malgrado relazioni diplomatiche così recenti, hanno già costruito un percorso di sviluppo dei rapporti bilaterali «adeguato, stabile e rapido», diventando «buoni amici sulla base della fiducia reciproca e buoni partner sulla base del sostegno reciproco». «Le economie emergenti stanno crescendo in massa», ha proseguito Wang, che ha aggiunto: «La pace e lo sviluppo sono ancora tendenze irreversibili del nostro tempo, malgrado le prevaricazioni internazionali».
Il riferimento, nemmeno troppo velato, è alla reazione degli Stati Uniti di fronte all'annuncio dell'accordo per la sicurezza siglato tra Pechino e Honiara lo scorso aprile. Poche ore dopo la notizia, Daniel Kritenbrink, incaricato di Washington per gli Affari dell'Asia Orientale e del Pacifico, aveva tuonato premettendo di «rispettare la sovranità delle Isole Salomone» ma spiegando che «se venissero presi provvedimenti per stabilire una presenza militare cinese permanente de facto, avremmo significative preoccupazioni e risponderemmo a queste preoccupazioni».
Lunedì scorso, da Tokyo, dov'era in visita, il presidente statunitense Joe Biden ha annunciato il prossimo lancio del cosiddetto Quadro Economico per la Prosperità dell'Indo-Pacifico (IPEF), durante una conferenza stampa congiunta con il primo ministro giapponese Fumio Kishida, definendo l'iniziativa nei termini di «un impegno a lavorare con i nostri più stretti amici e partner nella regione sulle sfide più importanti per garantire la competitività economia nel XXI secolo».
I Paesi che hanno espresso l'intenzione di aderire all'IPEF sono Australia, Brunei, India, Giappone, Corea del Sud, Indonesia, Malesia, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam. Insieme agli Stati Uniti, essi concentrano complessivamente circa il 40% del PIL mondiale: il 25% è tuttavia in mano ai soli States mentre il restante 15% è distribuito tra gli altri attori, con Giappone, India ed Indonesia in testa rispetto alle altre economie del Sud-est asiatico e dell'Oceania. Secondo quanto dichiarato in un comunicato congiunto, l'obiettivo dell'IPEF è quello di «preparare le nostre economie per il futuro», alla luce degli sconvolgimenti causati dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina.
L'accordo si limiterebbe alla cooperazione in quattro aree principali: economia digitale, catene logistiche, infrastrutture sostenibili e misure anti-corruzione. Non prevede, insomma, almeno per ora, la negoziazione di nuove regole tariffarie o nuove norme per facilitare l'accesso reciproco al mercato. La linea Biden, pur prendendone le distanze, non ribalta completamente quella di Trump. Se nel 2017 l'ex presidente aveva unilateralmente abbandonato il Partenariato Trans-Pacifico (TPP) per concentrarsi sul mercato nordamericano, negoziando un nuovo accordo con Canada e Messico (USMCA) che superasse il NAFTA del 1994, il nuovo inquilino della Casa Bianca, sebbene ripristinando l'approccio globally oriented tipico dei democrats, intende comunque mantenere l'impegno elettorale di preservare e rafforzare la manifattura e l'occupazione nazionale.
Biden, in altre parole, non può certo tornare a sostenere la forte spinta all'outsourcing dell'era Clinton se vuole salvaguardare gli interessi dell'industria statunitense ed evitare che la classe media ostile alla globalizzazione torni a votare in massa per Trump alle prossime elezioni del 2024. Allo stesso tempo, però, per infastidire e contenere la Cina vuole concludere nuovi accordi di cooperazione in materia di sicurezza strategica nella regione Asia-Pacifico: accordi che - va da sé - devono includere una qualche contropartita economica per i partner coinvolti.
Più passa il tempo e più la sfida dell'Amministrazione statunitense diventa proibitiva. Dopo otto anni di negoziati e uno di ratifiche, il primo gennaio di quest'anno è entrato in vigore il Partenariato Economico Globale Regionale (RCEP). Si tratta del più grande accordo di libero scambio al mondo, che coinvolge quindici Paesi del calibro di Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e i dieci membri dell'ASEAN. Qualora l'India dovesse scongelare la sospensione del suo ingresso decisa dal primo ministro Narendra Modi alla fine del 2020, la RCEP includerebbe in un'unica area commerciale, insieme alla Cina, tutti i partner del cosiddetto Quadrilateral Security Dialogue (QSD), la piattaforma militare "informale" con Nuova Delhi, Tokyo e Canberra che Washington sta cercando di costruire in funzione anti-cinese. E, parafrasando la citazione attribuita all'economista Bastiat, dove passano le merci non passano gli eserciti.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia