Cina. La posizione sull'Ucraina spiegata in sintesi, Pechino non accetterà nessun aut aut

139267925 15966498852931n(ASI) Ambiguo. Complice. A sostegno dell'alleato russo. In questi termini gran parte della stampa mainstream occidentale ha fin qui descritto l'atteggiamento della diplomazia cinese da quando, lo scorso 24 febbraio, Vladimir Putin ha dato il via a quella che il Cremlino ha definito «operazione militare speciale» allo scopo di «smilitarizzare e denazificare l'Ucraina», in riferimento ai vari battaglioni di ispirazione banderista inclusi nell'esercito al comando del presidente Volodymyr Zelens'kyj.

Più realisticamente, sin dai primi giorni di ostilità Pechino ha assunto una posizione indipendente, dichiarando apertamente di non voler aderire allo schema di sanzioni applicato dai Paesi occidentali, come per altro molti altri governi nel mondo. Sin'ora, ad aver adottato provvedimenti restrittivi, in varia misura e in diversi settori, contro la Russia si annoverano infatti soltanto Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Unione Europea, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Svizzera.

Ben più alti, naturalmente, sono i numeri della condanna politica di Mosca in sede ONU ma questa decisione - va ricordato - non è vincolante e non comporta automaticamente l'adozione di sanzioni o restrizioni di alcun genere. Ne è un plastico esempio la Turchia, membro NATO, che ha deplorato l'azione russa ma al contempo ha preferito non adottare sanzioni. In tutto sono stati 141 i Paesi membri a votare la risoluzione in 16 punti, presentata all'Assemblea Generale lo scorso 2 marzo, mentre 35 si sono astenuti e 5 hanno espresso parere contrario (Russia, Bielorussia, Siria, Corea del Nord ed Eritrea).

Tra gli astenuti, il nome più altisonante è indubbiamente quello della Cina, seconda economia mondiale e primo Paese al mondo per popolazione con 1,4 miliardi di abitanti. Non va però dimenticato che la medesima decisione è stata presa anche da altre due potenze nucleari del calibro di India e Pakistan, in rappresentanza di popolazioni che contano rispettivamente 1,38 miliardi e 221 milioni di abitanti. Se Islamabad, per voce del primo ministro Imran Khan, ha fatto sapere di non voler accettare alcuna imposizione diplomatica da Stati Uniti ed Unione Europea, Nuova Delhi mantiene con Mosca forti legami economici, commerciali e militari sin dai tempi della Guerra Fredda.

L'elenco degli astenuti si amplia a grandi o medi produttori di idrocarburi come Algeria, Angola, Iran, Iraq, Kazakhstan, Mozambico, Senegal, Sudan e Sud Sudan. Nel dettaglio dello spazio post-sovietico, le ex repubbliche dell'URSS ad esprimersi contro la Russia all'ONU sono state soltanto sei su quattordici: ovviamente la stessa Ucraina, sostenuta da Estonia, Lettonia, Lituania, Georgia e Moldavia. Come già visto, la Bielorussia, che appoggia Mosca nell'operazione, ha votato contro. Oltre al già citato Kazakhstan, ad astenersi sono stati anche Armenia, Kirghizistan e Tagikistan. L'Azerbaigian, l'Uzbekistan e il Turkmenistan, invece, non si sono nemmeno presentati.

La particolare pressione esercitata nelle ultime due settimane dall'Amministrazione Biden sulla leadership del colosso asiatico non ha dunque spiegazioni logiche, se non quella di voler coinvolgere a tutti i costi la Cina nel conflitto, mettendola di fronte ad un aut aut: accodarsi alla linea dei Paesi NATO o ritenersi cobelligerante con Mosca. Naturalmente, questa forzatura non sarà mai accettata da Pechino.

Dopo aver subito numerose aggressioni coloniali a cavallo tra Ottocento e Novecento, un periodo  noto in patria come "secolo delle umiliazioni", la Cina non tollera in alcun modo interferenze nei propri affari interni, inclusa la determinazione delle scelte di politica estera. I rappresentanti diplomatici del gigante asiatico lo hanno ripetuto più volte, anche in questi giorni, e hanno respinto tutte le accuse e le insinuazioni dei grandi media statunitensi derubricandole a tentativi di diffamazione.

Proprio ieri, durante la consueta conferenza stampa quotidiana, il portavoce Zhao Lijian ha ribadito che «la posizione della Cina sulla questione ucraina è coerente e chiara». Secondo Zhao, il governo «ha espresso giudizi indipendenti e ha esposto la nostra posizione sulla base del merito della questione stessa, in modo obiettivo ed equo». Riguardo i provvedimenti di carattere economico e finanziario, al netto del vertice tra Jake Sullivan e Yang Jiechi a Roma, Pechino continua ad opporsi «a tutte le forme di sanzioni unilaterali e alla giurisdizione a lungo raggio degli Stati Uniti», sottolineando che «difenderà risolutamente i diritti e gli interessi legittimi delle aziende e degli individui cinesi».

Sin dai primi giorni dell'avanzata russa, il governo cinese ha approcciato la questione seguendo uno schema a "doppio binario": da un lato ha ribadito la necessità generale di attenersi al principio del rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite; dall'altro ha indicato la specifica complessità del caso ucraino.

Le due osservazioni, giudicate da molti osservatori occidentali come contraddittorie, formano in realtà un "combinato disposto" che chiama in causa:

1. La particolarità del contesto post-sovietico dove, alla caduta dell'URSS, i confini nazionali rimasero gli stessi stabiliti artificialmente dal Soviet supremo sessant'anni prima per garantire relativa autonomia a territori conquistati nel passato dagli Zar;

2. Il principio di indivisibilità della sicurezza citato nell'Atto finale di Helsinki del 1975, nella Carta di Parigi del 1990 e nell'Atto istitutivo sulle relazioni NATO-Russia del 1997, in base al quale nessun Paese può avvantaggiarsi in termini di sicurezza a discapito di un altro, provocando un sostanziale squilibrio di forze complessivo.

Inutile, insomma, girarci intorno richiamandosi ad astrazioni o ad enunciati nel vuoto. Secondo il politologo statunitense John J. Mearsheimer in un'intervista al New Yorker dello scorso primo marzo, la reazione del Cremlino in Ucraina era assolutamente prevedibile. «Non è imperialismo, è la politica delle grandi potenze», dice Mearsheimer, imputando l'attuale situazione all'intenzione, manifestata già nel 2008, della NATO di inglobare l'Ucraina e la Georgia.

Con un riferimento tutt'altro che velato alla Dottrina Monroe, il politologo neo-realista aggiunge: «Quando sei un Paese come l'Ucraina e vivi accanto ad una grande potenza come la Russia, devi prestare molta attenzione a ciò che pensano i russi, perché se prendi un bastoncino per colpirli nell'occhio, loro reagiranno. I Paesi dell'Emisfero occidentale lo comprendono perfettamente in relazione agli Stati Uniti».

La politica estera della Repubblica Popolare è il risultato di settantatre anni di costruzione diplomatica, a partire dall'era Zhou Enlai, ma affonda le proprie radici più antiche nel pensiero di Confucio e di Mencio. Secondo la cultura tradizionale cinese, invadere o annettere altri territori con la forza è generalmente sbagliato, preferendo che sia l'armonia del buon governo a garantire la stabilità.

Non è un caso che, fin'ora, l'unica installazione militare di Pechino all'estero sia la base di supporto aperta cinque anni fa a Gibuti, dove diversi altri Paesi (tra cui anche l'Italia) impiegano le proprie forze armate per monitorare la sicurezza delle navi cargo nell'area del Golfo di Aden in funzione anti-pirateria. Questo, però, non toglie che, specie in una logica di serrata competizione geopolitica, la sovranità di un attore più piccolo possa degenerare sino a trasformarsi in un pericolo per la sicurezza collettiva di un vicino attore più grande, esattamente come spiegato da Mearsheimer.

L'invito erga omnes di Pechino a negoziare per individuare una soluzione politica alla crisi ed abbandonare le logiche della Guerra Fredda non è banale. Il pianeta, oggi, è molto più sfaccettato, e dunque molto meno prevedibile, rispetto a quaranta o cinquant'anni fa. La distorsione mediatica delle dinamiche internazionali cui stiamo assistendo nelle ultime settimane continua a dipingere una Russia isolata, prossima al default e incapace di avere la meglio sul campo.

La realtà, però, è diversa. Indubbiamente, Mosca sta affrontando e affronterà conseguenze pesanti che metteranno alla prova il suo sistema economico e finanziario, ma nel medio periodo ad isolarsi potrebbe essere proprio l'UE che, con l'autorizzazione all'invio di armi letali in Ucraina, si è di fatto trasformata da mediatore a parte in causa nel conflitto con Mosca, senza avere la benché minima capacità di confronto strategico al di fuori dell'ombrello nucleare statunitense.

Si continua ad ipotizzare un ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, schernendo Putin per l'effetto-boomerang di un presunto ricompattamento dell'Alleanza Atlantica. Tuttavia si ignora, forse per paura o forse per eurocentrismo, un enorme convitato di pietra, cioè l'India, su cui Washington e i suoi principali alleati hanno scommesso molte delle loro carte in funzione anti-cinese per il futuro prossimo.

Se Mosca riuscisse a ricomporre le recenti frizioni tra Nuova Delhi e Pechino, da sempre vicina al Pakistan, realizzando lo schema di alleanze preconizzato dall'ex primo ministro russo Evgenij Primakov alla fine degli anni Novanta, salterebbero anche le ultime mosse di Trump (Pompeo) e Biden (Blinken) nella cosiddetta regione indo-pacifica, dove Pechino ha già messo in chiaro che non tollererà la nascita di una nuova NATO in versione asiatica (Quad+AUKUS). Lo scenario è molto più complesso di quanto appaia e dagli esiti del conflitto in Ucraina dipenderanno molti degli equilibri del futuro. La Cina ne è consapevole e si muove con la massima attenzione.

 

Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia

 

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