(ASI) La prima storica visita ufficiale in Cina di Donald Trump da quando è presidente degli Stati Uniti ha attirato l'attenzione di tutti i principali media internazionali, a partire da quelli delle due potenze mondiali coinvolte.
Tra gli osservatori cinesi, infatti, la curiosità per le parole che il nuovo inquilino della Casa Bianca avrebbe pronunciato di fronte ai suoi interlocutori asiatici era molto forte. Dopo una campagna elettorale densa di avvertimenti e recriminazioni per il deficit commerciale accumulato nei confronti della Cina e per i trattati di libero scambio negoziati con alcuni partner orientali (inclusa la Corea del Sud, dove Trump è stato in visita prima di raggiungere Pechino), l'approccio del tycoon verso il Paese di mezzo si è fatto via via più morbido e realista, evitando scontri frontali e reazioni a catena che senz'altro avrebbero causato conseguenze dagli effetti imprevedibili, non solo sul piano economico-commerciale ma anche per quanto riguarda la sicurezza internazionale.
Gli Stati Uniti fanno marcia indietro
Xi Jinping e la consorte Peng Liyuan hanno accolto il presidente americano e la first-lady Melania con tutti gli onori, guidando la coppia ospite all'interno dei suggestivi scenari della Città Proibita, soffermandosi in particolare nel Palazzo dell'Armonia Suprema, nel Palazzo dell'Armonia Centrale e nel Palazzo della Preservazione dell'Armonia. Durante il suo discorso a Pechino, Donald Trump ha spiazzato non pochi osservatori sostenendo di non voler accusare la Cina per il deficit commerciale accumulato dal suo Paese, quanto piuttosto la passata amministrazione Obama rea, secondo il presidente americano, di averlo lasciato «fuori controllo». «Dopo tutto - ha incalzato il tycoon - chi potrebbe accusare un Paese di aver approfittato della situazione a spese di un altro Paese per il bene dei propri cittadini? Devo fare i miei complimenti alla Cina». Una dichiarazione forse acrobatica, ma non priva di logica e capace di riscuotere diversi applausi in sala.
Il Bashing China che molti avevano prospettato nei primi mesi della presidenza Trump, dunque, pare definitivamente scongiurato. In particolare, osservando il trend positivo registrato negli ultimi anni dall'export statunitense di servizi verso la Cina, dove il terziario sta di fatto guidando la crescita per la prima volta nella storia del Paese asiatico, Trump potrebbe aver fiutato la possibilità di individuare ulteriori spazi di inserimento per un settore che negli Stati Uniti è ampiamente navigato. Al contempo, gli avviati investimenti manifatturieri cinesi negli States garantiscono la sopravvivenza a non pochi comparti industriali locali, altrimenti costretti alla chiusura.
L'America First! dovrà così confrontarsi con una realtà globale molto più complessa e molto meno lineare rispetto alle semplificazioni da campagna elettorale. Dal palco del vertice della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) di Da Nang, in Vietnam, Xi Jinping, dal canto suo, ha ripetuto per l'ennesima volta ai leader della regione che la globalizzazione economica è un «processo irreversibile», dimostratosi col tempo capace di portare benefici importanti a tutti i popoli del pianeta, dunque strettamente connesso allo sviluppo in senso multipolare delle relazioni internazionali. Sebbene gran parte della stampa abbia contrapposto queste due visioni, i fatti potrebbero non tardare a smentire questa apparente polarizzazione "ideologica" tra le due principali economie mondiali.
Stando alle previsioni della Banca Mondiale per il triennio 2017-2019, infatti, Cina e Stati Uniti contribuiranno ben presto ad oltre la metà (53,1%) della crescita globale: la potenza asiatica col 35,2% e quella nordamericana col 17,9%. Quarta l'Eurozona (7,9%), dietro l'India (8,6%) e davanti a Indonesia (2,5%), Corea del Sud (2%), Australia (1,8%) e Canada (1,7%). Le nuove capacità e la maggiore apertura annunciata durante l'ultimo Congresso del Partito Comunista Cinese faranno in modo che Pechino assuma un ruolo di leadership in Asia, che né il Giappone né l'India possono contrastare, e svolga una funzione sempre più decisiva nei principali consessi politici, economici e finanziari internazionali. Non a caso, la Cina già da qualche anno ospita regolarmente il Vertice Annuale dei Nuovi Campioni del Forum Economico Mondiale, noto anche come Davos estiva, e la tavola rotonda 1+6 con i vertici dirigenziali di Fondo Monetario (FMI), Banca Mondiale (WBG), Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD), Consiglio per la Stabilità Finanziaria (FSB) ed Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).
Eppure, così come non era l'internazionalismo a spingere Obama a concludere accordi commerciali coi partner asiatici quanto invece l'obiettivo di contenere ed isolare la Cina, ora non è il nazionalismo a spingere l'amministrazione americana a rivedere l'apertura ai mercati, bensì la consapevolezza di non avere più in mano lo scettro di attore dominante. La globalizzazione, così come l'abbiamo conosciuta sin'ora, è sostanzialmente il frutto di un processo avviato dalle politiche di leader di destra come Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Tuttavia, Stati Uniti e Gran Bretagna adesso realizzano che il gioco, dal loro punto di vista, non vale più la candela e le nuove destre di Donald Trump e Theresa May fanno scudo, disimpegnandosi da molti accordi assunti in precedenza.
Pronto il piano RCEP per sostituire il TPP
L'esperienza degli Stati Uniti nel Partenariato Trans-Pacifico (TPP) è finita prima ancora di cominciare ed anche se le forti pressioni bipartisan su Trump per evitare un destino analogo al NAFTA (dove Canada e Messico stanno già correndo ai ripari) potrebbero avere la meglio, aver ribadito il principio dell'America First! dal palco del vertice APEC ha sancito un progressivo disimpegno degli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico, dove la Cina ha pronto da tempo un progetto per la creazione di una gigantesca area di facilitazione commerciale che coinvolga tutti i Paesi attualmente riuniti nel vertice ASEAN+6, ovvero i dieci Paesi del Sud-est asiatico, la stessa Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Australia e Nuova Zelanda. Il primo vertice tra i rappresentanti di questi sedici Paesi è in programma proprio in queste ore a Manila nel quadro del 31° vertice generale dell'ASEAN.
Il Partenariato Economico Regionale Globale (RCEP) - questo il nome ufficiale - andrebbe così a scalzare definitivamente l'influenza economica americana sull'area, dove Washington, a quel punto, potrebbe far valere soltanto il suo ruolo militare rispetto al paventato (ma non certo eterno) pericolo missilistico nordcoreano. Non è un caso che Xi Jinping, proprio al vertice APEC di Da Nang, abbia esortato il primo ministro giapponese Shinzo Abe ad «adottare misure concrete per migliorare i rapporti bilaterali» e a «gestire le differenze tra i due Paesi in modo costruttivo». Da parte sua, Abe ha ricordato l'intenzione di Tokyo di lavorare insieme a Pechino per sviluppare una relazione strategica dal mutuo vantaggio fra i due Paesi, a pochi mesi di distanza dal quarantesimo anniversario della firma del Trattato di Pace e Amicizia Sino-Giapponese (12 agosto 1978).
Con Xi Jinping contemporaneamente impegnato in una visita di Stato in Laos, al vertice ASEAN di Manila è andato il primo ministro cinese Li Keqiang. Nel suo discorso inaugurale, il presidente filippino Rodrigo Duterte, padrone di casa, ha ricordato l'importanza delle discussioni in seno al summit per lo sviluppo, la sicurezza e la stabilità, e la necessità di un sempre maggior impegno comune contro il terrorismo e l'estremismo, a poche settimane dalla definitiva liberazione di Marawi, la città nell'isola meridionale di Mindanao che in estate era stata presa d'assedio da alcune milizie islamiste locali affiliate all'ISIS.
Anche in questo caso, malgrado le celebrazioni per il quarantesimo anniversario del dialogo tra l'ASEAN e gli Stati Uniti, Donald Trump è sembrato poco motivato, dando l'impressione di avere già la testa sul volo di rientro che lo riporterà a Washington nelle prossime ore dopo questo lungo tour asiatico. Dopo aver mostrato fiero al mondo, mesi fa, la firma dell'ordine presidenziale con cui revocava la partecipazione del suo Paese al TPP, Trump dovrà paradossalmente sperare che Kim Jong-un continui a condurre test nucleari perché se Pechino, Tokyo e Seoul dovessero trovare una soluzione concordata alla questione nordcoreana, gli Stati Uniti diventerebbero di fatto un attore superfluo nella regione.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia