(ASI) Lo scorso 27 ottobre il cacciatorpediniere lanciamissili USS Lassen della Marina degli Stati Uniti è entrato nello spazio marittimo della barriera di Zhubi, nella porzione dell'Arcipelago delle Isole Nansha (Spratly) attualmente delimitata da recenti costruzioni artificiali cinesi, finalizzate a riaffermare la sovranità della Repubblica Popolare su quello e su tutti gli altri arcipelaghi contesi nel Mar Cinese Meridionale.
Come già osservato in un nostro precedente approfondimento del 21 giugno scorso (http://www.agenziastampaitalia.it/politica/politica-estera/25896-mar-cinese-meridionale-sale-la-tensione-ma-pechino-ha-le-sue-ragioni), l'arbitrato unilateralmente richiesto dal governo delle Isole Filippine urta non solo con il diritto internazionale, violando la Dichiarazione sulla Condotta delle Parti nel Mar Cinese Meridionale, siglata tredici anni fa nel quadro dell'ASEAN tra i Paesi membri e la Cina, ma anche con la storia, dal momento che "la Cina fu il primo Paese a scoprire, nominare, esplorare le isole del Mar Cinese Meridionale e a sfruttarne le risorse, ed il primo Stato ad esercitare una costante sovranità su di esse", come ha ribadito il governo di Pechino nel Libro Bianco sulla Questione della Giurisdizione nel Mar Cinese Meridionale, pubblicato lo scorso anno.
Gli Stati Uniti, sfruttando la loro storica partnership con Manila (la più longeva nel quadro della rete di alleanze di Washington nella regione Asia-Pacifico), hanno colto chiaramente la palla al balzo per incunearsi in quello scenario marittimo attraverso alcune delle direttrici ufficiali che avevano già delineato la linea del Pivot to Asia del duo Obama-Clinton: rafforzare le alleanze bilaterali per la sicurezza; impegnarsi nelle istituzioni multilaterali regionali; creare una presenza militare ad ampio spettro; e garantire la libertà di navigazione.
Proprio alla libertà di navigazione ha fatto riferimento una nota del Dipartimento alla Difesa degli Stati Uniti, che ha giustificato la manovra della sua nave da guerra nell'arcipelago conteso, adducendo ragioni di sicurezza per le quali ha ritenuto opportuna un'operazione di pattugliamento che, stando alle indiscrezioni, sarà solo la prima di una lunga serie nel quadro della presunta operazione Freedom of Navigation.
Ovviamente, la reazione di Pechino è stata furiosa. L'ambasciatore cinese negli Stati Uniti si è attivato immediatamente chiedendo spiegazioni alla Casa Bianca, mentre l'ambasciatore americano in Cina è stato rapidamente convocato dal Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare per chiarimenti ufficiali. Ma è soprattutto la stampa cinese ad aver usato i toni più duri nei confronti di quella che viene ovviamente interpretata come una provocazione militare, che va ad acuire ulteriormente un livello di tensione tra le due sponde del Pacifico già innalzato dalla recente ratifica del Partenariato Trans-Pacifico (TPP), un accordo di libero scambio concordato tra Washington e altri undici Paesi della regione con l'evidente scopo di isolare la Cina, esclusa a priori dalle trattative.
Pechino: "Relazioni con gli USA seriamente danneggiate"
Il Ministero degli Esteri cinese ha reagito alla violazione di quelle che Pechino ritiene a pieno titolo acque territoriali nazionali, con una dichiarazione del portavoce Lu Kang, che ha esordito dinnanzi alla stampa con parole pesanti come macigni: "Oggi, 27 ottobre, la USS Lassen è entrata illegalmente nelle acque di prossimità di importanti isole e scogliere delle Isola Nansha cinesi, senza alcuna autorizzazione da parte delle autorità del nostro governo". Dopo aver messo in chiaro che "la sovranità della Cina e i diritti di pertinenza sul Mar Cinese Meridionale si sono formati lungo il corso della storia e sono stati rafforzati dai seguenti governi cinesi", Lu Kang ha affermato che la Cina "rispetta e tutela il diritto di navigazione e sorvolo sul Mar Cinese Meridionale, a cui tutti i Paesi hanno accesso in base al diritto internazionale, ma è fermamente contraria alle violazioni compiute da qualsiasi nazione ai danni della sua sovranità e della sua sicurezza nazionale con la scusa della libertà di navigazione e di sorvolo".
In effetti, la USS Lassen è entrata all'interno dell'area compresa entro le 12 miglia nautiche (circa 22 km) dalle coste, limite oltre il quale il diritto internazionale sancisce per qualsiasi imbarcazione straniera l'inizio delle acque territoriali nazionali dello Stato costiero. In base alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare, aggiornata e approvata nel 1994, sono contemplate, in favore dell'imbarcazione straniera, fattispecie di licenza per ragioni di transito commerciale o per motivi di sicurezza, da cui la rivendicazione del diritto di navigazione da parte statunitense. Tuttavia - ed è qui il nocciolo della questione - tali manovre, secondo il diritto internazionale, "non devono pregiudicare la pace, il buon ordine o la sicurezza del Paese costiero".
Il passaggio in acque contese, non comunicato preventivamente né tanto meno concordato, di una nave da guerra come la USS Lassen, concepita per lanciare missili guidati contro obiettivi sia di superficie sia sottomarini, non può certo considerarsi estraneo a potenziali tentativi di danneggiare la sicurezza della Cina. Considerando che altri isolotti o barriere dell'Arcipelago delle Nansha, sebbene rivendicati da Pechino, sono al momento occupati rispettivamente dagli eserciti del Vietnam, delle Filippine, della Malesia e di Taiwan - uno Stato che per il diritto internazionale vigente nemmeno esiste - viene da chiedersi perché la Marina americana abbia deciso di andare a rivendicare il diritto alla navigazione proprio intorno ad una delle barriere occupate dalla Repubblica Popolare?
Più in generale, partendo dal fatto che il protettorato statunitense più vicino, ossia l'Isola di Guam, dista in linea d'aria oltre 3.000 km dall'Arcipelago delle Nansha mentre la costa occidentale degli Stati Uniti "contigui" (CONUS) ne dista addirittura 12.000, è lecito domandarsi su quali basi politiche e giuridiche Washington si senta autorizzata ad intervenire manu militari per tutelare un diritto che, come ricordato dal portavoce Lu Kang, già esiste per qualsiasi nazione?
Il Ministero della Difesa cinese parte proprio dallo status di Washington come "attore estraneo alla regione" per criticare duramente il comportamento del Pentagono. E' toccato al Colonnello Yang Yujun fare da portavoce per l'Esercito Popolare di Liberazione: "L'azione provocatoria della nave da guerra statunitense stavolta ha seriamente danneggiato la fiducia reciproca tra la Cina e gli Stati Uniti e si è ritorta contro gli sforzi compiuti dai due Paesi per costruire un nuovo modello di relazioni sino-statunitensi ai massimi livelli e un nuovo modello di rapporti militari diretti".
Secondo il portavoce del ministro Chang Wanquan, nonostante alcune difficoltà, "il dialogo sul codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale con gli altri Paesi dell'area sta andando avanti" ed in simili circostanze, la decisione di inviare una nave da guerra in prossimità della barriera di Zhubi "ha attentato alla sicurezza nazionale della Cina e ha messo gravemente a repentaglio la pace e la stabilità regionale".
Mostrare i muscoli per cosa?
Proprio osservando l'accordo raggiunto lo scorso 5 ottobre ad Atlanta, dei dodici Paesi aderenti al TPP solo cinque sono asiatici e, ad eccezione del Giappone e di Singapore, il loro peso economico e strategico è sostanzialmente irrilevante. Brunei, Malesia e Vietnam sono mercati di buone prospettive ma molto meno dinamici di realtà come Corea del Sud, Indonesia o Thailandia, che al momento sono rimaste fuori dal Partenariato promosso da Washington e Tokyo.
Malgrado alcuni giornali occidentali abbiano tessuto le lodi di Obama, sottolineando la roboante cifra del "40% del PIL mondiale" raccolta dal TPP, appare evidente che sul piano strategico l'accordo sia del tutto sbilanciato verso Washington ed i suoi tradizionali alleati nella regione: Canada, Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Messico. In Asia, gli Stati Uniti continuano in realtà a perdere terreno, mostrando la netta incapacità di tessere trame che, come la SEATO e la CENTO durante la Guerra Fredda, possano garantir loro il controllo delle principali aree costiere comprese tra Europa mediterranea, Africa settentrionale ed Asia meridionale.
Checché se ne dica, al di là delle diverse opinioni nel merito, l'intervento russo in Siria ha prodotto uno "slittamento" nella politica di sicurezza internazionale, con Mosca che ha di fatto preso in mano le redini della guerra al terrorismo, pesantemente trascurata da Obama nel quadriennio 2011-2014, durante il quale l'amministrazione americana ha preferito puntare, sbagliando, sulle leadership islamiste in ascesa nel mondo arabo, spalleggiate dalla Turchia e dal Qatar. La caduta di Morsi in Egitto nel 2013 ha segnato una svolta in tal senso ed il nuovo regime politico costruito al Cairo da al-Sisi ha cambiato gli equilibri anche in Siria, garantendo ad Assad una sponda "laica" anche ad Ovest del Mar Rosso.
Giunto all'ultimo anno di mandato, Obama ha ormai fallito gran parte dei suoi obiettivi di politica estera ma su di lui grava ancora un'ultima responsabilità: quella di non danneggiare irreparabilmente l'immagine del Partito Democratico non solo presso gli elettori, ma anche dinnanzi al Pentagono, dove pare si sia già scatenata un'aspra lotta interna per i futuri equilibri di potere, tanto nelle Forze Armate quanto nei servizi segreti. E' del tutto chiaro che la "bravata" militare della USS Lassen serva a rilanciare l'immagine di una potenza ancora capace, malgrado tutto, di imporsi sugli altri secondo i crismi del tradizionale eccezionalismo americano.
Provocare la Cina, però, si rivelerà un boomerang. Anzitutto, perché sul piano della tecnologia militare Pechino ha ormai acquisito adeguati dispositivi anti-access/area-denial, coi quali è in grado di neutralizzare qualsiasi minaccia straniera, compresa la superpotenza aeronavale americana. La parata militare del 3 settembre scorso ha lanciato segnali in tal senso, come la prima esposizione pubblica del missile anti-nave DF-21D, specificamente pensato per la distruzione delle portaerei.
Sul piano politico, un'eventuale escalation militare nell'area non è nell'interesse di nessun altro Paese della regione, inclusi il Vietnam e le Filippine che - va da sé - nel giro di poche settimane avrebbero la peggio in un ipotetico conflitto diretto con la Cina, bruciando anche solide relazioni commerciali nate nel quadro dell'ASEAN+3.
Un'ulteriore plateale dimostrazione di irresponsabilità non farebbe che allontanare da Washington anche gli ultimi solidi alleati rimasti nell'Asia continentale, isolando persino Tokyo, dove il consenso politico di Shinzo Abe balla continuamente sul filo del rasoio.
Andrea Fais - Agenzia Stampa Italia