(ASI) Le frasi di circostanza e le dichiarazioni ottimistiche non possono occultare la verità: il vertice di Parigi della coalizione anti-Isis è stato deludente.
Al di là delle questioni di strategia militare, pure importanti, appare oggi chiaro che senza sciogliere i nodi geopolitici di fondo non c'è possibilità di vittoria nel contrasto all'estremismo terroristico che minaccia la nostra civiltà.
Nel Mediterraneo il progressivo disimpegno americano, favorito dall'auto-sufficienza energetica, ha consentito che tra i paesi dell'area si aprisse una lotta senza esclusione di colpi per l'egemonia regionale. Nello scacchiere più vasto, che va dallo Yemen alla Siria, senza più un quadro di riferimento consolidato, nessuno ha remore a giocare in proprio, anche a costo di finanziare l'estremismo religioso o tirare le fila di sanguinose guerre per procura.
Così la coalizione anti-Isis, senza una forte guida, è in realtà straordinariamente divisa, ostaggio di visioni strategiche antitetiche e di interessi contrastanti, come sono oggi quelli della Turchia e dell'Egitto, dell'Iran, dell'Arabia Saudita e degli altri Stati del Golfo.
E' un "grande gioco" che si intreccia alle divisioni religiose (la frattura tra sunniti e sciiti ma anche quella interna al mondo sunnita), spesso estremizzate ad arte ed usate a fini puramente politici.
Di fronte a questo scontro, la strategia di contenimento del Daesh passa in secondo piano. E infatti sta fallendo, in Siria come in Iraq. Potrà dipendere dalla limitata efficacia dei raid aerei, dalle divisioni etniche e dalle tante decisioni sbagliate del recente passato (come la dissoluzione dell'esercito baathista dopo la caduta di Saddam), ma anche dal fatto che ci sono governi a cui la caduta di Damasco e l'indebolimento dell'Iran interessano molto di più del destino di Palmira, dei suoi abitanti e dei suoi monumenti.
Lo stesso vale in Libia dove da mesi l'inviato dell'Onu, Bernardino Leòn, si dibatte tra una consultazione e l'altra. Ma il nodo non si scioglie mai perché i due governi che si contendono il controllo del paese (e le centinaia di milizie che lo stanno dilaniando) possono contare, oltre confine, su amici potenti. Tobruk è sponsorizzata da Egitto e Arabia saudita; Tripoli da Qatar e Turchia, e nessuno ha interesse alla pacificazione del paese, almeno fin quando non sarà caduto sotto la propria sfera d'influenza.
Le conseguenze sono quelle che abbiamo sotto gli occhi. Non stiamo parlando solo di morti, profughi e distruzione, ma di Stati nazionali che vedono dissolversi i propri confini tradizionali, di milioni di persone in balia dell'estremismo religioso, di intere regioni trasformate in piattaforme d'espansione del terrorismo internazionale.
E' un salto di paradigma di cui non si può non tener conto, anche sul piano della definizione di una possibile via d'uscita, che deve passare attraverso un nuovo impegno al dialogo e al lavoro comune tra americani ed europei. Occorre mettere in campo tutti i mezzi a disposizione e, soprattutto, coinvolgere tutte le parti in causa. A cominciare dagli attori regionali, che se aspirano ad un ruolo geopolitico più forte, devono anche essere chiamati con forza ad assumere nuove responsabilità. E senza dimenticare la Russia, che va associata a questo tavolo e senza la quale è impossibile immaginare soluzioni durature in contesti così complicati e variabili.
Ancora una volta è Aleppo, città simbolo della convivenza tra culture e religioni, a metterci di fronte al nostro fallimento. Qui, dopo i vani tentativi dell'Onu di dichiararla "città aperta", in un ennesimo capovolgimento di ruoli, Assad oggi sembra allearsi addirittura con le milizie dell'Isis contro gli insorti anti-regime. Qualcuno, nelle grandi cancellerie occidentali, è disposto a riconoscere i nostri errori?
Redazione Agenzia Stampa Italia