(ASI) I leader cristiani d’Iraq si sono rivolti all’Unione europea affinché li aiuti ad impedire una guerra civile che metterebbe in pericolo il futuro del paese e di una minoranza «fragile» come quella cristiana. È successo a Bruxelles lo scorso 10 luglio nel corso di una riunione organizzata da Aiuto alla Chiesa che Soffre.
Vista la criticità del momento iracheno, la fondazione pontificia ha invitato alcuni esponenti della Chiesa locale nella capitale belga per incontrare il presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy, ed altri rappresentanti dell’Unione. L’iniziativa rientra nell’ambito della collaborazione tra ACS e l’Ue che ha visto svolgersi altri incontri tra istituzioni europee e testimoni delle Chiese in difficoltà, quali quelle di Pakistan, Egitto, Siria e Repubblica Centrafricana.
La delegazione della Chiesa irachena era composta dal patriarca caldeo Louis Raphael I Sako, dal vescovo siro-cattolico di Mosul, monsignor Yohanna Petros Mouche, e dall’arcivescovo caldeo di Kirkuk, monsignor Yousif Thomas Mirkis.
Il patriarca Sako ha descritto ai rappresentanti dell’Unione l’estrema debolezza e la fragilità della minoranza cristiana. «Se non verrà trovata una soluzione pacifica, non resterà che una simbolica presenza cristiana. E ciò metterà la parola fine alla nostra storia in Iraq». Nonostante i cristiani non rappresentino un chiaro obiettivo dei fondamentalisti, l’alto prelato ha raccontato come, in seguito all’invasione dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), tanti dei suoi fedeli abbiano abbandonato le zone in mano ai jihadisti. Assieme a loro anche molti musulmani che hanno trovato rifugio in alcune strutture della Chiesa o presso le famiglie cristiane di villaggi vicini. «L’opera pastorale della Chiesa – ha detto il patriarca – non è rivolta soltanto ai cristiani».
I membri della delegazione irachena hanno inoltre illustrato il fondamentale ruolo che la loro comunità può ancora giocare nel paese, nonostante anni di violenze e persecuzioni sistematiche. La piccola minoranza può contribuire alla mediazione tra le parti coinvolte nel conflitto settario e agevolare le relazioni con la comunità internazionale. L’aver mantenuto un’assoluta neutralità e aver promosso soluzioni pacifiche, fa dei cristiani degli ottimi mediatori che cercano di costruire ponti di pace attraverso il dialogo. «Tutti sanno che il mostro unico interesse è il bene del paese. Ed è per questo che gli esponenti delle diverse fazioni accolgono sempre con favore il nostro invito ad incontrarsi e discutere nelle nostre chiese».
L’onorevole Tunne Kelam del Partito Popolare europeo ha espresso il proprio rammarico, notando come la recente crisi irachena abbia fatto conoscere al mondo il dramma dei cristiani mediorientali. «Non possiamo rimanere impassibili al loro dolore – ha detto il parlamentare europeo – l’Unione deve impegnarsi per favorire quell’uguaglianza e quel rispetto reciproco che costituiscono le condizioni necessarie affinché i cristiani, la più antica presenza del Medio Oriente, possano continuare ad abitare la regione». La questione irachena è tra i temi che saranno discussi domani, 16 luglio, durante il Consiglio europeo dei capi di governo degli Stati membri.
L’ultimo censimento iracheno del 1987 stimava il numero dei cristiani nel paese in circa un milione e 400mila. Da allora il massiccio esodo, intensificatosi dopo l’inizio della guerra nel 2003, ha decimato la comunità che oggi conta approssimativamente 300mila fedeli. La maggioranza vive a Bagdad, sebbene le migrazioni interne verso il più sicuro Kurdistan iracheno non accennino a diminuire.
I tre leader religiosi temono che le continue violenze possano mettere fine a 2mila anni di cristianità in Iraq. «Sotto Saddam avevamo sicurezza, ma non libertà religiosa. Oggi abbiamo libertà religiosa ma non sicurezza», ha affermato il patriarca Sako. «La paura è tale – ha aggiunto monsignor Mirkis – che pochissimi fedeli riescono ad intravedere un proprio futuro nel paese».