La retorica democristiana è talmente famigerata da apparire grottesca al giorno d’oggi, coi suoi manifesti maccartisti e le sue deformazioni della realtà, tra bambini mangiati a colazione e cosacchi in marcia verso San Pietro. Se uno degli esponenti della Balena Bianca ritenuti più inclini al dialogo e all’apertura verso il PCI, come Aldo Moro, nel 1965 ebbe a riferire in Parlamento che la situazione in Vietnam sembrava essere «affrontata con senso di responsabilità» dagli Stati Uniti, è facile intuire l’alterazione della realtà di cui la politica del tempo era vittima.
Il partito di Emma Bonino, invece, nel 1982 chiariva in un comunicato: «Siamo anti-sovietici, denunciamo cioè il pericolo crescente della politica espansionista e militarista dell’URSS». I radicali, però, condannavano anche il pacifismo, a detta loro egemonizzato dal PCI, e denunciavano «la riaffermazione di una inaccettabile visione ‘distensionista’ delle relazioni internazionali che non tiene in nessun conto il pericolo gravissimo rappresentato dalla politica militarista dell’Unione Sovietica». Dopo il 1991 la Bonino, da nonviolenta, appoggiò le motivazioni alla base di tutti gli interventi militari degli Stati Uniti e/o della NATO in Iraq, in Serbia, in Afghanistan, nuovamente in Iraq nel 2003, recentemente in Libia e quello sfiorato in Siria, evitato all’ultimo momento grazie all’azione tempestiva della diplomazia russa che ha impedito l’esplosione ennesima, e forse definitiva, della storica polveriera mediorientale.
A seguito della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, il Movimento Sociale Italiano aveva addirittura individuato in Israele «un baluardo dell’Occidente, contro l’espansionismo sovietico» tanto che secondo quanto riportato dall’ex direttore del “Secolo d’Italia” Franz Maria D’Asaro in un articolo celebrativo del 2002, «Almirante sin dai primi anni Cinquanta sensibilizzava il nostro interesse nei confronti dello spirito pionieristico e patriottico con il quale i fondatori dello Stato d’Israele [...] avevano fondato la nuova nazione». Mentre sul fronte orientale si prodigavano per fermare l’espansionismo russo, sul fronte occidentale i missini strizzavano l’occhio all’esercito di Moshe Dayan e Ariel Sharon, portavano la loro solidarietà a Pinochet e ai colonnelli greci, appoggiavano l’intervento anglo-americano nella Guerra del Golfo e, sotto le “nuove” insegne di Alleanza Nazionale, hanno garantito per quindici anni incondizionata lealtà alla NATO in occasione di tutte le aggressioni militari di cui si è resa responsabile.
Oggi l’URSS non c’è più, eppure Mosca resta ancora la capitale di un Paese ritenuto non-cooperante, ostile se non bellicoso. Sebbene non sia mai intervenuta militarmente al di fuori dello spazio post-sovietico, dove mantiene alcune basi strategiche ereditate dal passato, la Federazione Russa continua ad essere percepita dagli occidentali come una potenza aggressiva al punto che secondo il giornalista ebreo americano George Will «l’espansionismo è nel DNA dei russi». Tante grida, però, stridono con la realtà dei numeri perché secondo l’ultimo Base Structure Report diramato nel 2013 dal Dipartimento alla Difesa americano, le forze armate statunitensi possedevano al settembre 2012 ben «557.000 installazioni (edifici, strutture complesse e strutture lineari), collocate in oltre 5.000 siti nel mondo e occupanti più di 27,7 milioni di acri», parte delle quali posizionate proprio intorno alla Russia, lungo la dorsale centro-orientale di quell’Unione Europea che oggi punta il dito e minaccia sanzioni contro Mosca, apprestandosi a firmare la propria condanna a morte economica e sociale.
È un vizio che evidentemente l’Europa si trascina dietro da almeno due secoli cioè da quando, sconfitto Napoleone a Lipsia, ha dovuto accettare – suo malgrado – l’ingresso della Russia imperiale nel lotto delle principali potenze mondiali. L’antipatia personale che il presidente russo Vladimir Putin si è guadagnato in Occidente negli ultimi dodici anni trova, con la crisi in Crimea, un’enorme valvola di sfogo che ormai coinvolge non solo esponenti ed opinionisti di destra e di centro ma anche quel “popolo di sinistra” che, attraverso il berlinguerismo, è passato dalla parossistica intransigenza marxista ai dogmi di fede del liberalismo progressista statunitense. Tra i banchi di questi intellettuali riciclati e validi per ogni stagione spiccano i nomi di Gad Lerner, di Michele Serra e di Carlo Panella che, assieme ad altri celebri colleghi, non hanno mancato anche in questa occasione di raffigurare Vladimir Putin come un despota del XXI secolo, sciorinando deliranti comparazioni tra l’odierna politica estera russa e quella del Terzo Reich.
Inutile girarci intorno. Quello di Piazza Maidan è un golpe in piena regola, dove forze di opposizione, garantite e già presenti in parlamento, hanno inscenato una situazione da stato d’emergenza, rifiutato qualsiasi accordo provvisorio proposto da Yanukovich e soffiato sul fuoco della violenza organizzata di piazza per costringere il presidente eletto nel 2010, appoggiato da una maggioranza relativa eletta nel 2012, ad abbandonare la capitale e lasciare vacante il suo ruolo. La cosa ancor più grave è che i tre partiti beneficiari del cambio di potere hanno fatto leva su una manovalanza composta da frange estremistiche di chiara matrice neo-nazista, quali Praviy Sektor e Splina Sprava, già coinvolte in attività di teppismo, sabotaggio, guerriglia e terrorismo non solo in Ucraina ma anche in Cecenia e in Georgia. Tra i vari caporioni della rivolta di Piazza Maidan, infatti, spicca il nome di Aleksandr Muzychko, ricercato in Russia per complicità col terrorismo islamista caucasico, e Dmytro Yarosh, che ha recentemente dichiarato guerra (sic!) alla Russia davanti alle telecamere dei principali mezzi di comunicazione del Paese. In generale, l’orientamento dei tre principali partiti anti-Yanukovich è fondato su un nazionalismo piuttosto artificiale che si nutre di vari contributi ideologici ereditati dal passato più remoto: l’eredità della dominazione polacco-lituana nella parte occidentale del Paese, il violento sciovinismo russofobo dell’UPA di Stepan Bandera e l’uniatismo greco-cattolico che è riuscito a penetrare persino nella comunità cristiano-ortodossa ucraina, dividendola al suo interno in gruppi contrapposti che riproducono sul terreno religioso lo scontro tra Mosca e Kiev.
I nuovi leader dell’Ucraina non hanno legittimità politica e non rappresentano in alcun modo la volontà di quello che viene spacciato per un “popolo unito”, ma che in realtà risente di una storica divisione interna dovuta ai ripetuti ampliamenti del territorio nazionale ucraino nel passato, fra cui emerge in particolare l’acquisizione della Crimea, che Kruschev “regalò” alla Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina nel 1954. In realtà, chiusa la vicenda storica del Khanato locale e del protettorato ottomano, la Crimea è terra russa dal 1784, quando Caterina II ricevette dai governanti regionali il mandato di annetterne il territorio al suo Impero. La mappatura etnica della regione ne è testimone fedele: circa il 60% della popolazione è di etnia russa, il 24% di etnia ucraina (ma quasi del tutto russofono) e il 12% di etnia tatara (e religione musulmana). Non è perciò un caso il fatto che grandissima parte delle milizie attive in questa repubblica autonoma dell’Ucraina hanno deciso di passare sotto il comando delle forze armate russe, mentre il parlamento locale ha votato quasi all’unanimità (78 voti favorevoli su 81) la dichiarazione d’indipendenza dal resto dello Stato. Domenica prossima un referendum popolare dovrà decidere l’annessione di questa penisola alla Federazione Russa.
Il territorio crimeano è di fondamentale importanza sia per le materie prime che ospita nel suo sottosuolo, sia per la posizione strategica a cavallo tra il Mare d’Azov e il Mar Nero. Le principali banche e tutte le riserve di gas e petrolio sono state nazionalizzate appena due giorni fa in base ad un decreto approvato dal parlamento regionale in fretta e furia. Allo stato attuale, la Russia ha già schierato un imponente spiegamento di forze in Crimea: un numero imprecisato di uomini compreso tra le 2.000 e le 10.000 unità, che finora hanno assunto il controllo dello Stretto di Kerch e disarmato interi reparti ucraini nelle basi di Simferopoli, Yevpatorya e Balaklava; 11 elicotteri da guerra Mi-24 vicino Saki; 18 aerei da trasporto strategico Il-76 di cui 13 a Sebastopoli e 5 nei pressi di Gvardeyskaya; 4 cingolati SPW 251 nelle vicinanze di Sebastopoli; una corvetta missilistica classe Tarantul in pattugliamento nella baia di Balaklava; a questi si stanno aggiungendo decine di mezzi terrestri tra blindati, camion e furgoni da trasporto, circa 12 elicotteri da guerra tra Mi-28 e Mi-8 e, secondo le indiscrezioni, anche due batterie missilistiche anti-aeree S-400.
I partiti oggi al potere si sono segnalati più volte in passato per aver tentato di bloccare con la violenza l’introduzione del russo persino come seconda lingua dello Stato, hanno già richiesto l’adesione dell’Ucraina alla NATO e i nazionalisti di Svoboda contemplano addirittura nel loro programma l’acquisizione di armi tattiche nucleari e la delirante richiesta al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di ottenere una fantomatica licenza di attacco nucleare preventivo. È evidente che la sola presenza al potere di esponenti politici del genere è già di per sé una dichiarazione di guerra non solo alla comunità russofona ucraina, pari al 43% della popolazione nazionale, ma anche alla Russia stessa, ora chiamata a difendere la sua più corposa comunità di “connazionali fuori dai confini”, minacciati dagli assalti e dalle scorribande dei nazionalisti provenienti dalle regioni occidentali e centrali.
Per quanto riguarda il diritto internazionale, sbandierato ad intermittenza dalle potenze della NATO, va ricordato che la stessa dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita a Belovezha nel dicembre del 1991, è tutt’ora oggetto di controversie e dispute legali dal momento che quel vertice tra Eltsin (Russia), Kravchuk (Ucraina) e Shushkevich (Bielorussia) contravvenne al risultato del referendum popolare svolto nel marzo precedente, quando milioni di cittadini furono chiamati a scegliere tra la conservazione dell’URSS (riformata) o il suo definitivo smantellamento. L’affluenza alle urne raggiunse quota 80% mentre il “sì” al mantenimento dell’Unione vinse col 77,8%, compresa l’Ucraina dove si affermò col 71,48%. Proprio a tale questione Putin avrebbe recentemente fatto riferimento nel corso di un colloquio con l’ex presidente del Parlamento (Majlis) della comunità tatara della Crimea, Mustafa Dzhemilev. Inoltre dal 1994 un trattato internazionale impegnava l’Ucraina a garantire alle forze armate russe l’affitto della base navale di Sebastopoli sino al 2017, confermato e prolungato nel 2010 di altri venticinque anni, ovvero sino al 2042.
Quando sentiamo parlare di “invasione russa della Crimea”, siamo dunque all’inversione della realtà, alla completa manipolazione dei fatti, ad un mascheramento dei fattori in gioco tanto più necessario ai nostri leader politici quanto più velocemente il ciclo dell’egemonia occidentale si avvierà verso la sua naturale conclusione storica. Stati Uniti ed Europa mostrano unghie e denti, come leoni feriti di fronte a prede che non solo non riescono ad acciuffare ma non sono nemmeno in grado di individuare. Come disse l’ex presidente iraniano riformista Khatami nel 2006, l’Occidente ha bisogno di un nemico. In quella fase dominata dalla retorica dello “scontro tra civiltà” la dottrina Bush individuò questo nemico nell’Islam, salvo evitare di menzionare gli strettissimi legami economici e militari della Casa Bianca con gli emirati del Golfo, principali finanziatori del terrorismo internazionale. Oggi Barack Obama rispolvera invece la russofobia di strateghi come Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, dimostrandosi non certo lontano dal suo ultimo sfidante, il repubblicano Mitt Romney, che in campagna elettorale indicò la Russia come il “nemico numero uno” degli Stati Uniti. La pace è a portata di mano. Sta all’Occidente evitare altre provocazioni.
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