(ASI) Non si ferma più la spirale di odio e di violenze in quella che dovrebbe essere la “Terra Santa”: l'aviazione israeliana ha reagito con centinaia di incursioni nella Striscia di Gaza al lancio di razzi dai territori occupati verso il sud di Israele.
Dopo il rapimento dei tre ragazzi ebrei del 12 giugno scorso e il ritrovamento dei cadaveri un paio di settimane dopo, la tensione è continuata a salire rapidamente, culminando nell’uccisione di un diciassettenne palestinese, rapito e arso vivo a Gerusalemme, cui sono seguiti scontri nella medesima città. Il bilancio della “Operazione confine protettivo” è ormai di oltre 130 palestinesi uccisi, circa un migliaio di feriti e un numero imprecisato di abitazioni distrutte negli ultimi cinque giorni di almeno 800 raid aerei israeliani nella Striscia, secondo fonti del locale ministero della Salute. E’ da notare che il bombardamento di abitazioni costituisce una violazione delle Convenzioni di Ginevra, circostanza supportata dal fatto che almeno 30 delle vittime fossero civili, per lo più donne, anziani e bambini. Le zone più colpite dai missili nei raid israeliani sono state il campo profughi di Al-Maghazi e i due rioni di Gaza, Sajaya e Zaitun. Tutti le famiglie residenti nella striscia vivono nell’incubo di poter morire in ogni momento. "E' un genocidio, l'uccisione di intere famiglie è un genocidio da parte di Israele contro il popolo palestinese", ha detto il leader dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), da Ramallah in Cisgiordania, "è in corso una guerra contro l'intero popolo palestinese e non contro Hamas e le fazioni armate. Sappiamo che Israele non sta difendendo se stesso, ma i suoi insediamenti, il suo progetto - ha aggiunto - ci stiamo muovendo in diverse direzioni per fermare l'aggressione israeliana e lo spargimento di sangue dei palestinesi, siamo in contatto con il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, e con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon". Ma il presidente israeliano, Shimon Peres, lancia un ultimatum: "Li abbiamo avvisati. Gli abbiamo chiesto di fermarsi, abbiamo atteso un giorno, due, tre e loro hanno continuato. Ed hanno sparso il loro fuoco su molte aeree di Israele. Se Hamas non ferma il lancio dei razzi, a breve potrebbe cominciare l'offensiva di terra". Anche secondo il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, “L'offensiva "proseguirà fino a quando gli spari verso le nostre città non cesseranno del tutto e la calma ritornerà". Intanto i razzi, partiti ormai a migliaia dalla Striscia, sono indirizzati sull'area metropolitana e sull'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv, ma anche su Ashdod, Ashkelon e la zona centrale di Israele a oltre 150 km di distanza, al punto che Hamas ha avvertito le compagnie aeree di fermare i voli su Tel Aviv, anche se la maggior parte di tali ordigni vengono intercettati dal sistema di difesa Iron Dome. Negli ospedali di Gaza, intanto, manca tutto: dagli strumenti chirurgici alle cose più essenziali come garze, bende, disinfettanti, qualsiasi cosa; un problema già critico che ora si è aggravato. La Striscia di Gaza, similmente ad altre zone dei territori autonomamente amministrate dall’Autorità Nazionale Palestinese, è un'area completamente chiusa, non entra e non esce niente e nessuno (almeno ufficialmente): quindi scarseggiano i rifornimenti di carburanti e l’elettricità manca spesso come l’acqua, situazione acuita dalla distruzione delle infrastrutture. Il valico di Rafah è stato riaperto dagli egiziani ma solo per i feriti e sussistono problemi logistici per gli accompagnatori, quando invece dovrebbe esserlo per tutti: non si può vivere chiusi dentro confini invalicabili.
Il problema ha numerosi risvolti e non è limitato alla sola Striscia di Gaza, ma esteso a tutta la Regione: a partire dall’epoca dei califfati, conclusasi con il ritiro dell’Impero Ottomano e l’instaurazione del Protettorato Britannico nel 1917, passando per l’occupazione da parte dello Stato di Israele nel 1948, estesasi con la guerra dei sei giorni nel 1967 alle alture del Golan, alla Cisgiordania e al Sinai, la Palestina non ha mai avuto un proprio Stato. Eppure, secondo dati riportati anche al museo della Shoah, nel 1941 gli ebrei in Israele erano solo 400.000, contro i circa 6 milioni attuali, mentre i palestinesi contavano non meno di 3 milioni. Proprio la politica della colonizzazione e degli insediamenti ebraici in territori a prevalente radicamento musulmano, paradossalmente incentivatisi dopo gli Accordi di Oslo del 1993, ha esasperato gli animi e scavato il fossato dell’odio fra popoli che fino alla metà del secolo scorso erano riusciti, bene o male, a convivere sostanzialmente in pace. Ora le tensioni coinvolgono anche le minoritarie comunità cattoliche e ortodosse, da sempre presenti in Terra Santa. Solo per fare un macroscopico esempio, da qualche anno è in costruzione un muro alto fino a 8 metri e lungo già circa 500 degli 800 km previsti, avente lo scopo di circondare completamente la Cisgiordania, per separarla dalle zone ad integrale amministrazione israeliana e proteggere quest’ultime da eventuali attacchi terroristici: rimane aperto solo qualche valico presidiato e controllato militarmente, ma interdetto ai palestinesi residenti nei territori occupati. Esisteva un volta un strada in linea retta per recarsi da Gerusalemme ad Ebron passando per Betlemme: ora tale strada è chiusa dal suddetto muro e i non palestinesi che vogliano andare da un parte all’altra parte debbono fare una tortuosa deviazione passando per un sorvegliato e armato “check point”. Inoltre, nelle zone ad autogoverno dell’ANP, ma sotto il controllo dello Stato di Israele per la sicurezza esterna, quest’ultimo ha facoltà di entrare per “ispezioni” quando vuole. Non è sicuramente un bel vivere per nessuno dei contendenti. Ma c’è da chiedersi cui prodest, a chi giova tutto ciò? Troppo semplicistico rispondere ai venditori di armamenti. Ma l’ONU, gli USA e la UE, così solerti nell’intervenire in altri conflitti, direttamente o con sanzioni economiche, cosa pensano di fare? A parte la prioritaria emergenza umanitaria, c’è da attendersi un pericoloso coinvolgimento di altri soggetti del mondo arabo e un’ulteriore massiccia ondata di profughi verso il sud dell’Europa, alla quale non si vedrebbe come far fronte. La speranza è di una tregua il prima possibile, ma sarebbe solo un palliativo temporaneo se non seguito da una risoluzione definitiva delle ostilità della quale le Nazioni Unite in primis debbono farsi carico.
Roberto Bevilacqua - Roma