(ASI) Il senso dell’ultima opera di Massimo Borghesi, professore di Filosofia morale presso l’Università di Perugia, è tutto contenuto nei due ordinali del titolo e del sottotitolo.
L’idea della “terza età del mondo” come compimento della storia e inizio di un regno dello Spirito, dopo quello del Padre (ebraismo) e del Figlio (cattolicità medievale), in cui tutte le forme concrete della religione cristiana si annullano in una fratellanza universale e nell’effusione del Paraclito, venne proposta per la prima volta dall’abate Gioacchino da Fiore nel XIII secolo. Questo sogno gnostico-millenaristico e il suo sviluppo nella riflessione occidentale è stato analizzato con acume e profondità a tutt’oggi insuperata dal gesuita francese Henri De Lubac.
A partire da De Lubac, Borghesi approfondisce la tesi della secolarizzazione come svolgimento dell’ideale florense e quindi della modernità come sviluppo autonomo da un Cristianesimo ereticale di cui mantiene, trasformandola, la promessa di realizzazione del regno di Dio sulla terra. Il testo si sofferma così non solo sulle posizioni di De Lubac ma anche su quelle, affini, di Karl Loewith e su quelle contrarie di Blumenberg. Per Borghesi, al termine di una attenta e ponderata disamina delle posizioni di questi autori (ma anche di Taubes, Voegelin, von Balthasar, Del Noce e altri) si potrà parlare di secolarizzazione, in quanto “modello di salvezza affine a quello cristiano proprio per potersi opporre ad esso … come metamorfosi della gnosi e non già come traduzione secolare di contenuti cristiani”.
L’autore istituisce così un rapporto complesso e delicato tra Cristianesimo e modernità; il pensiero moderno nel suo movimento di immanentizzazione di idee, concetti, attese, speranze cristiane incontra e sviluppa temi gioachimiti ponendoli definitivamente al di fuori del contesto cristiano. Il libro analizza meticolosamente i luoghi in cui anche piccole variazioni di significato dei termini portano a sviluppi impensati e importanti. Da questo punto di vista grande spazio è dato a un pensatore che non è molto considerato, a torto, fondamentale nello sviluppo del pensiero occidentale: Gotthold Ephraim Lessing.
Contrariamente alla ricostruzione di De Lubac, che nomina e analizza Lessing ma senza dargli un rilievo notevole, Borghesi individua in lui e nella sua ripresa del Vangelo Eterno, ne “L’educazione del genere umano”, un punto di svolta fondamentale nella storia della modernità. Quando Lessing, citando i “visionari del XIII e XIV secolo” sostiene che “non erano animati da cattive intenzioni quando insegnavano che il Nuovo Testamento doveva diventare altrettanto antiquato come lo è diventato l’Antico” (paragr. 88), sta introducendo all’interno di una temperie culturale al tramonto dell’illuminismo una visione storica ed escatologica che, fatta propria dal nascente Romanticismo, segnerà una frattura fondamentale nello svolgersi della modernità stessa.
Qui arriviamo all’ordinale del sottotitolo. Borghesi parla di “seconda modernità”. Per l’autore la grande frattura della storia europea è rappresentata dalla Riforma Protestante, dalla rottura della Respublica christianorum e dalle conseguenti guerre di religione che insanguinarono il continente almeno fino alla pace di Westfalia (1648). Questa prima modernità, si noti che la periodizzazione di Borghesi è del tutto analoga a quella utilizzata dallo storico Greengrass ne “La Cristianità in frantumi”, nasce da questioni interne al Cristianesimo e non riesce a trovare soluzioni soddisfacenti nel Cristianesimo stesso, per cui a partire dalla seconda metà del ‘600 e per tutto il ‘700 la riflessione lentamente cambia portando dalla preminenza della discussione teologica a quella della critica, sempre più corrosiva e scettica, del deismo e dell’illuminismo nei confronti della religione.
Lessing si situa quindi saldamente all’interno della seconda modernità (post Westfalia), ma al tornante tra illuminismo e romanticismo. La sua visione storica tripartita verrà sistematizzata e condotta alla più ammirevole coesione interna dal panlogismo hegeliano. Borghesi dedica molte pagine, con un interessante excursus sull’arte moderna, al pensiero di Hegel, visto come il punto più alto raggiunto dalla interpretazione trinitaria della storia a partire da una cristologia che ha come approdo la trasformazione dello Spirito (Santo) in Spirito (del mondo). Sono pagine di grande interesse dove l’autore, con una sensibilità quasi sismografica, registra ogni più piccolo slittamento nel significato e nell’uso dei termini dalla giovinezza fino alla grandiosa e, per molti versi, inquietante sistematizzazione finale berlinese.
La fondamentale categoria hegeliana dell’Aufhebung (superamento) diventa in queste pagine lo strumento principe con cui Borghesi analizza la riflessione del filosofo sulla figura del Cristo, sul rapporto fede e filosofia e sul problema del male ma ritorna qui la questione accennata fin dalle prime pagine: “la <teodicea> hegeliana apre…le <porte degli Inferi>, legittimando nella cultura tedesca dell’Ottocento, la positività del negativo” (p. 32). Questa analisi così ricca di sfumature è la stessa che l’autore utilizza nei confronti della sinistra hegeliana (di cui è ricostruita la parabola con un’attenzione rara nella letteratura italiana) e di Marx di cui emergono le dipendenze e le contrapposizioni (proprio perché ne dipende) nei confronti non tanto di Feuerbach, questione ampiamente acquisita e dibattuta negli studi relativi, quanto di Stirner. Sul rapporto Marx-Stirner e Marx-Nietzsche il testo ci porta al termine dell’Ottocento e lascia intravvedere quelle tragedie novecentesche che in nome di un Terzo Regno (Drittes Reich) e di un Paradiso sulla terra hanno realizzato le catastrofi più terribili della storia dell’umanità. Di notevole interesse è anche l’analisi dedicata all’ideologia italiana da Mazzini a Mussolini posta in appendice al testo.
E’ evidente, da quanto fin qui scritto, che Borghesi si muove in un ambito tutto interno all’Europa germanica. Ed è questa una scelta senz’altro giustificata da un punto di vista sia storico, sia teoretico: non a caso parla di “via tedesca alla modernità”. Eppure nella sua periodizzazione storica, che come s’è visto è fondamentale nella ricostruzione dell’evoluzione culturale occidentale, vi è un “sovrappiù” di significato che non deve sfuggire. Parlare di due modernità non è qualcosa di legittimo solo per l’Europa continentale. Se si allarga lo sguardo alle isole Britanniche non può sfuggire quel movimento di evoluzione interno al protestantesimo di stampo calvinista che, seguendo Weber e Troeltsch, dopo la Rivoluzione inglese porta a un “neo-protestantesimo” e infine alla razionalità moderna. Un “neo-protestantesimo” che spesso giunge ad esiti che ben poco hanno a che vedere col pensiero di Calvino (come notò lo stesso Weber) ma che da Calvino prende impulso; un po’ come la riflessione hegeliana che da Lutero e attraverso Lutero si forgia per giungere a esiti che hanno ormai pochi punti di contatto con Lutero stesso.
In ambito anglosassone il sogno gioachimita non sembra svolgere un ruolo così importante come sul continente e, giustamente, nessuno degli autori citati da Borghesi se ne occupa. Vogliamo però evidenziare come nell’ambito di una Riforma non più legata al monaco di Wittenberg si prenda una strada diversa che porta ad una diversa modernità, quella anglo-americana. Preme quindi solo sottolineare come quella linea che De Lubac, attraverso infinite mediazioni, riflessioni, tradimenti e approfondimenti pone da Gioacchino da Fiore a Hitler (uno degli ultimi paragrafi della sua monumentale opera s’intitola non casualmente “Da Marx a Hitler”) è una possibilità di realizzazione del mondo moderno. Forse la più inquietante, ma senz’altro non l’unica. Il libro di Massimo Borghesi contribuisce in modo pregnante a descrivere come un aspetto della modernità si sia realizzato nella cultura dell’Europa occidentale segnandone, talvolta tragicamente, il destino.
Nicola F. Pomponio