Jacopone da Todi il frate che combattè con la poesia e le armi la ricchezza e il lusso del papato di Bonifacio

jacoponedatodi(ASI) É uno dei padri della lingua italiana, un grande poeta ("voce vigorosa e sconvolgente" per alcuni critici) ed anche un personaggio influente della vita religiosa e politica a cavallo tra Duecento e Trecento, eppure la sua immagine, oggi, appare sbiadita, la conoscenza della sua figura e della sua opera quasi dimenticata.

Pensare che solo pochi decenni fa i manuali di letteratura italiana ritagliavano uno spazio significativo alle sue laude (una novantina) e alla sua vicenda umana, avvolta per i primi trenta anni nella leggenda.

Per restituire lustro all'immagine di Jacopone da Todi (sebbene lui scrivesse: “fama mia te raccomanno/al somar che va raglianno”) sta muovendo i primi passi una iniziativa, messa in campo da un gruppo di tuderti, finalizzata ad invertire la tendenza ed a varare, nel volgere di pochi mesi, un ricco, approfondito e variegato programma. Tra l'altro sarà possibile ammirare in palazzo Pongelli gli affreschi (12 scene) dipinti nel Seicento da artisti quali lo Zuccari e il Polinori. E non mancheranno prese di posizione anche sul piano squisitamente religioso (Jacopone é venerato come Beato e si vorrebbe fosse nominato Santo).

La prima parte della biografia di Jacopo - figlio di Iacobello dei Benedetti - nobile fiero e sdegnoso, é avvolta nel mistero. Pare fosse amante dei piaceri mondani e che la svolta, decisa e netta, l'abbia vissuta il giorno in cui l'amata moglie, Vanna di Bernardino di Guidone dei conti di Coldimezzo, morì (nel 1268, pochi mesi dopo il matrimonio) per il crollo del pavimento nel corso di una festa mondana. Jacopo scoprì che la consorte, a sua insaputa, indossava per penitenza un cilicio e questo particolare lo spinse alla conversione (1269). A quel punto donò i suoi beni ai poveri e si votò per una decina di anni ad una vita ascetica, di privazioni e di umiliazioni, quasi selvatica, che i suoi contemporanei bollarono come pura "follia", fino ad entrare nell'ordine dei frati minori di San Francesco (nel 1278). Sebbene potesse contare su una vasta cultura religiosa e giuridica (aveva studiato all’università di Bologna e alcuni lo dicono notaio, altri sostengono esercitasse comunque una professione legale) volle restare "bizzoccone", un frate, cioè poverissimo e dipendente dalle elemosine, come segno di protesta contro il lusso del clero. Ultimo degli ultimi, insomma.

Nel vivace e violento contrasto, seguito al concilio di Lione, tra gli Spirituali (fautori della prima regola, più stringente, di Francesco di Assisi) ed i Conventuali (che propugnavano la proprietà di beni da parte della comunità) il frate tuderte si schierò apertamente e polemicamente con i primi, i "Pauperes", abbracciando Madonna Povertà. Che fosse conosciutissimo lo testimonia il particolare che figura tra i firmatari (Jacobus de Tuderto) del "manifesto di Lunghezza", affisso dai cardinali Pietro e Jacopo Colonna contro Papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, con il quale (il 10 maggio 1297) si dichiaravano illegittime le dimissioni di Celestino V e di conseguenza nulla l'elezione di Bonifacio (il cui governo veniva bollato come "tirannico" e a cui si imputava la morte, nel castello di Fumone, del suo predecessore, Celestino V) e si sollecitava la convocazione di un concilio per l'elezione di un nuovo pontefice. Jacopone aveva scritto, lasciando il convento di Pantanelli di Baschi, per raggiungere Palestrina e combattere a fianco degli Spirituali e dei colonnesi: “La Curia romana c’ha fatto esto fallore/ curriamoce a furore, tutta sia dissipata”). L’energico Bonifacio, di contro, lanciò una vera e propria crociata contro i suoi contestatori e pose sotto assedio Palestrina, castello in cui si erano asserragliati i ribelli. La fortezza resistette quasi un anno e mezzo e si arrese (15 ottobre 1298) solo con l'inganno (il "consiglio fraudolento" che Guido da Montefeltro avrebbe suggerito a Bonifacio, come riporta Dante nel canto XXVII dell'Inferno). Palestrina venne rasa al suolo e il pontefice fece spargere il sale sulle rovine, così come i Romani avevano fatto con Cartagine. Jacopone in catene, scomunicato come tutti gli altri avversari del Papa, venne rinchiuso prima in Castel San Pietro e poi nei sotterranei di San Fortunato, a Todi. Abituato alle rinunce della vita mondana, il frate supplicava Bonifacio - che aveva conosciuto a Todi da giovane, quando il futuro Papa aveva vissuto con lo zio, Pietro Caetani, vescovo della città umbra dal quale era stato creato canonico di Santa Illuminata, parrocchia tuderte - che gli concedesse, non la libertà di cui non si curava, l’annullsmdnto, la revoca della scomunica per permettergli di sfuggire, al momento della morte, alle porte dell'Inferno (“Colpisci pure il mio corpo, ma assolvi la mia anima”, la sua implorazione).

Bonifacio, rancoroso quale si era sempre dimostrato, non gli perdonò nulla, neppure in occasione del Giubileo. Solo il successore del Caetani, Benedetto XI (Nicola di Boccassio, morto a Perugia nel 1304) tolse la scomunica a Jacopone e gli restituì la libertà. Il frate trascorse gli ultimi anni della sua tribolata esistenza nel convento di San Lorenzo, a Collazzone, dove spirò la notte del 25 dicembre 1306.

Le sue spoglie vennero traslate dal vescovo Angelo Cesi nel tempio di San Fortunato a Todi. Proprio in quegli anni (nel 1433) Paolo Uccello, nel duomo di Prato, dipinse l'immagine del beato tuderte.

Tra il 1278 e gli inizi del Trecento, Jacopone vergò in volgare una novantina di laude soprattutto di natura religiosa (sembra venissero lette per la formazione dei novizi), ma non solo (pure di argomento politico come quelle, fortemente aggressive e battagliere, contro il Papa e il clero ricco). Polemizzava, ferocemente, contro la corruzione del mondo e del pontificato (ben due secoli prima dell'avvento di Martin Lutero) e contro la vanità dei beni mondani. Innalzava e cantava, al contrario, la lode di Dio e l'amore assoluto per Gesù ("Gesù, speranza mia, abissame en amore"). Il suo capolavoro resta il Pianto della Madonna, pure questo in volgare, di profondissimo pathos. Ma sapeva scrivere pure in latino (gli viene attribuito lo "Stabat mater”, musicato da grandi compositori di varie epoche).

Singolare un altro particolare. Nella vicenda dell'assedio di Palestrina si trovarono su campi avversi due grandi intellettuali entrambi di Todi: il cardinale Matteo Bentivenga di Acquasparta, cittadina all'epoca facente parte del territorio tuderte e di nobile famiglia originaria todina, comandante dell'esercito papalino e il suo coetaneo e concittadino Jacopone, sotto i vessilli anti papalini di cui era considerato leader spirituale.

Elio Clero Bertoldi per Agenzia Stampa Italia

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