(ASI) NEW YORK - Comincio dai numeri. Non amo farlo di solito, penso che spesso i numeri nascondano le vere storie. Ma in questo caso mi occorrono i dati. Proprio per parlare di quello che accade.
- 17.250.000: Questo è il numero delle persone che, nel censimento del 2010, si sono dichiarate italo-americane. Il sesto più grande gruppo etnico in America, pari a circa il 5,9% della popolazione totale del Paese:
- 23.000.000: Questo è il numero dei cittadini americani con una qualche discendenza italiana, secondo diverse stime riportate riportate da importanti associazioni italo-americane.
- 223.429: Questo è il numero degli italiani che, secondo la rilevazione del 2012, vivono negli USA e sono iscritti all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), un’iscrizione peraltro obbligatoria secondo la legge. Hanno la cittadinanza italiana o la doppia cittadinanza.
Vi prego di tenerli in mente questi numeri, mentre vado avanti con quanto voglio dire.
Per chi dobbiamo scrivere, e in che lingua?
La scorsa settimana, durante un incontro pubblico con una delegazione di parlamentari italiani - con la vice-presidente della Camera Marina Sereni, il senatore Claudio Zin e l'onorevole Lia Quartapelle - una mia domanda ha sollecitato una piccola discussione. Lo spunto era la riforma dell’editoria, in particolare il sostegno alla stampa italiana all’estero, che è in fase di ridefinizione.
Una buona notizia: dopo decenni di contributi concessi (e non stiamo qui a discutere i criteri) solo alle testate che escono in carta, sembra che all’orizzonte si profili finalmente un aggiornamento normativo che includerà anche l’informazione on line. “Apriti cielo!” direte voi. Siamo d’accordo. Non è mai troppo tardi.
Ma il punto della discussione, da me provocata in quell’incontro, non era questo. Io avevo chiesto se sono previsti sostegni anche per la stampa italiana in lingua inglese (o in generale del paese di destinazione). E mi è stato risposto da Claudio Zin che l’aiuto è rivolto solo agli italiani all’estero e che questi parlano italiano. A questo senatore a vorrei dire alcune cose, usandolo - se mi è permesso - come tramite per raggiungere altri. Incluso questo Governo che fa del cambiamento la propria bandiera. Ma per questo non bastano le visite alle startup della Silicon Valley e le solite parole su cervelli fuggiti.
Italiani in Italia - politici, imprenditori, giornalisti - avete mai pensato di far realizzare un identikit di chi, provenendo dal nostro paese, vive oltre oceano ormai anche da diverse generazioni? Vi siete mica accorti che qualcosa è cambiato da qualche decennio? Che ad esempio questi milioni e milioni di persone non parlano più italiano, eppure mantengono un legame affettivo fortissimo, un interesse culturale, una “predilezione di spesa” diciamo, per tutto ciò che è italiano? Parlo dagli Stati Uniti certo, per quello che so io dopo 20 anni che ci vivo, ma penso che questo valga per molti altri Paesi.
Ecco, riguardiamoli ora quei numeri: Quelli che presumibilmnte parlano italiano sono gli iscritti all’AIRE, poco più di 200.000 (e poco più di 100.000 in Canada). Non pochi, ma certo un piccolissimo numero, 10 volte inferiore agli oltre 20 milioni di americani discendenti da italiani. Tra cui moltissimi giovani che, a diverse generazioni di distanza dal passaggio transoeceanico dei loro avi riscoprono il nostro Paese, ne apprezzano la cultura, ne consumano volentieri i prodotti e la moda, vi si recano come turisti, studenti o per lavoro. Molti di loro hanno uno status sociale elevato e la maggioranza ha livelli di istruzione e di reddito superiori alla media americana.
Milioni di persone che possono conoscere l’Italia, oggi, solo in lingua inglese. Anche se tanti vorrebbero imparare l’italiano, ma è certo un obiettivo di medio-lungo periodo naturalmente. Ciò che oggi abbiamo di fronte è una vera e propria “Italia fuori di sé ”, ancora dimenticata e raggiunta soprattutto attraverso un banale paternalismo, che visto da questa parte dell’oceano risulta spesso stucchevole e ovviamente allontana.
Serve una mediazione linguistica e culturale
Va di moda dire che gli italiani che vivono all’estero (incusi, spero, i loro figli, nipoti e pronipoti) sono una grande risorsa, anche economica, un grande mercato “captive” per i nostri prodotti, la cultura, l’arte e il turismo. Sono anni che sento questi discorsi, talvolta venati da un accento di sapore “coloniale”…
Ma come si raggiungono? Come ci si comunica? Come li si informa sull’Italia? Quand’è che accetteremo la realtà che questi milioni di persone non parlano l’italiano?
Tutti i nostri giornali continuano a parlare italiano, a parte qualche timida traduzione. La RAI, e ora anche le reti Mediaset, continuano a trasmettere in italiano. Nonostante vadano riconosciuti a RAI Italia (nella recente gestione di Piero Corsini) alcuni lodevoli tentativi di ammodernamento, il palinsesto è palesemente sotto tono e mostra grandi difficoltà a comunicare alle nuove generazioni. E poi, ovviamente, è in italiano! Dunque ha un bacino d’utenza ristrettissimo.
E allora, cosa succede? Che rimaniamo noi di i-Italy a raccontare l’Italia in inglese. Un inciso, visto la nostra quotidiana presenza in rete dal 2008 anche in lingua italiana (pubblichiamo anche in italiano), magari attingeremo ai finanziamenti, ma è paradossale che non venga considerata la parte più onerosa del nostro lavoro costante in rete/carta/tv: quella in lingua inglese.
Abbiamo raggiunto tappe di diffusione notevoli. Una di cui andiamo orgogliosi ultimamente è il superamento della soglia di 100.000 amici su Facebook. Ma viviamo rincorrendo affannosamente potenziali sponsor, che spesso non capiscono, oscillando tra la RAI e il New York Times, dove dovrebbero investire per comunicare agli americani, che siano o meno di discendenza italiana.
Devono scegliere il getto etnico-linguistico italiano? O il santuario della stampa americana? Domanda mal posta, naturalmente. Gli serve una mediazione, linguistica e culturale, altrimenti non arrivano da nessuna parte. Un esempio? Scrivere un articolo in inglese sulla mostra dei manoscritti di San Francesco all’ONU - per raccontare un episodio recente - vuol dire essere letti da giornalisti del New York Times che poi ti contattano, ti chiedono informazioni, rilanciano il tema a loro volta.
Noi italiani ci lamentiamo molto della scarsa attenzione della stampa straniera, ma continuiamo a non capire che il motivo è semplice: non conoscono la nostra lingua! E, cosa un po’ più grave forse, noi non conosciamo la loro. O comunque non la usiamo per comunicare. E soprattutto non riteniamo di dover sostenere gli sforzi di chi cerca di comunicare l’Italia nel mondo in un’altra lingua che non sia quella di Dante.
Un’ultima considerazione. Ho parlato di milioni cittadini americani di origine italiana, che parlano inglese a cui non si arriva. Ma perché non parlare dei discendenti degli italiani nel resto del mondo? C’è chi li stima in 60-70 milioni di persone. È c’è poi un numero indefinito, ma notoriamente piuttosto alto, di persone che amano l’Italia, indipendentemente dalla loro origine e dal paese in cui vivono. Ecco, comunicando in lingua inglese raggiungiamo anche questa audience, che anni fa Piero Bassetti aveva identificato con il termine italici.
Con il dovuto rispetto, senatore: solo degli italiani che vivono in America e comunicano in inglese possono aiutarla a raggiungere l’obiettivo.
PS: Aggiungo a margine che questa “Italia fuori di sé ”, ancora oggi sa ben poco di quello che dovrebbe essere l’evento più importante in termini di comunicazione e di immagine all’estero dell’anno che comincia tra un mese: Expo Milano 2015. Provate e chiedere in giro. Quanti americani o italo-americani sanno di cosa si tratta? Ma di questa grande occasione mancata magari parlerò in una prossima puntata.
Letizia Airos
Direttore Network editoriale i-Italy
www.i-Italy.org
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