Italian Pasta 2: un problema culturale

(ASI) A Perugia, per gli eletti, gli iniziati della tavola, era inconcepibile andare a cena e non mangiare da “Ginone”, al secolo “Fontanella di Porta Sole”. È sì perché lui in quella cucina della trattoria dei suoi genitori, posta proprio davanti alla “fontanella” della piazza del centro, ci era nato nel vero senso della parola, aveva dormito sotto al camino per la brace e ci era cresciuto fino a non entrarci più data la imponente mole.

La ristorazione ce l’aveva proprio nel sangue, da generazioni. Nonostante l’altezza e l’apparenza ombrosa era gentilissimo, raffinato come la musica di cui era profondo conoscitore da sempre. Era proprio questa l’impronta digitale del suo locale che ci aveva incuriosito, oltre alle zuppe di ceci al rosmarino e di farro ed ai vini di ricercate cantine dell’orvientano, del tuderte e del Montefalco: la musica,  tendenzialmente degli anni Sessanta e Settanta, quella della grande tradizione italiana, che aveva suonato e cantato in gruppo fin da giovanissimo. Adesso trasferitosi nel nuovo locale era rimasto più oste che ristoratore; figura questa a cui mal si abituava allorquando aveva a che fare con i clienti altezzosi, ottusi o quelli che tipicamente sono convinti di essere grandi intenditori e invece si nutrono di plastica ben infarcita. Il suo locale era stregato, in esso si verificavano alchimie umane oltre che gastronomiche che erano riuscite addirittura a condurre a sposalizi. Un Bar sotto il mare di Stefano Benni, un approdo per i viaggiatori veri, un ritrovo fisso per gli studenti autentici e per un cenacolo di clienti fissi tutti interessantissimi, eclettici, singolari era questo il locale del “Ginone”. …E tutti rendevano speciale il luogo per le storie che ivi si intrecciavano come pilotate dal mago della casalinga cucina, semplice, umbra. A cena, pure tra sconosciuti, non mancava occasione in cui il vino di un tavolo finisse versato su quello di un altro, magari in quello dove si erano sistemati timidamente due turisti occasionali. Ecco… esattamente una Canterbury Tales più che un “nostrano” Decamerone. Non mancava l’esploratore di canyon, il maschio latino con la schiera di oche vergini (detto appunto il “califfo”), la coppia di amanti pudici già avvizziti all’origine poi finiti sposati in un altrettanto mesto matrimonio, l’accordatore di pianoforti, il grande cerusico, l’arguto banchiere, il giornalista nazionale, il libraio antiquario, la coppia storica per quanto giovane e dialettica. Il cliquet era sempre quello: due primi e due secondi rigorosamente senza antipasto perché quella era “…roba da uccelli”. Per i secondi molta Umbria: coratella di agnello, fegatelli all’alloro, coda al sagrantino e salcicce all’uva tutti accompagnati da un sublime, straordinario prodotto della farina impastata all’acqua del Monte Cucco: la “crescia eugubina” (inopportunamente parafrasata come “torta al testo”). Per i primi molta Italia, poiché qui si mangiavano, inusualmente, gli spaghetti alla chitarra conditi al sugo o di fave o di baccalà. Erano quelli di grano duro tirati con la chitarra fine, frutto di una farina che respira aria del Trasimeno e dell’alta Umbria (sorprendentemente ricercata anche da pizzaioli partenopei di scuola e tradizione). Una materia prima bianca e fragrante che ormai non è priva dei numerosi controlli di conformità caratterizzanti l’autocontrollo e i più attuali sistemi di Qualità e igiene alimentare; ma che resta e persevera tra “tecnologia e tradizione”. Non orfana di una sensibilità tutta legata al tatto e al naso nella scelta dei grani, quella farina era testimonianza culturale di una evoluzione del tessuto sociale e lavorativo di famiglie intere, espressione di una archeologia industriale molitoria antichissima cresciuta e adeguatasi tecnologicamente, ma senza niente perdere di ciò che è originalità delle razze e autenticità della provenienza. Un percorso storico iniziato con gli Umbri e proseguito attraverso la provincia romana del I secolo a.C. Grano, taglio e condimento alle fave erano la edibile, succulenta manifestazione della biodiversità umbra che, nella sua parte più alta, avrà alterne vicende dalla antichità alla fine del 1800: «Per un lungo periodo di oltre due secoli (‘600-‘800) le rilevazioni indicano che permangono le stesse coltivazioni nel territorio eugubino (a parte le varianti legate ad altitudine e a tipologia di terreni). I cereali vengono coltivati ovunque, anche in condizioni estreme. I poderi migliori sono quelli con la maggiore area di “lavorativo” e sono terreni destinati ai cereali, di solito associati ad altre colture (vite o olivo). Di rado si rintraccia il “lavorativo nudo”. Tra i cereali per l’alimentazione umana prevale il grano, ma vi sono anche segale e farro,  prodotti comunque in modo discontinuo e prevalentemente su poderi di alta collina o montagna. Nel territorio di Gubbio, nella seconda metà del ‘700 è introdotto il granoturco, coltivato all’inizio in modo poco esteso e discontinuo. La quota seminata poi andrà aumentando nel corso del secolo, mentre restano stabili le quantità di grano, orzo, orzarella. La produzione dei cereali è importante anche perché gli operai e gli artigiani eugubini spesso venivano pagati parzialmente o integralmente “in natura” con quantitativi di grano (oltre che di vino). Ai fini zootecnici vengono poi coltivati: avena, veccia, “formentone” (o “granturchetta”, così veniva chiamato dai contadini il mais) orzo, “orzarella”, una varietà con cariosside più piccola (utile anche per l’alimentazione umana, abbinata alle fave nelle minestre). L’orzarella torrefatta, inoltre, nell’uso familiare, è a lungo un noto sostituto del caffè. Il loglio (“gioglio”, Lolium temulentum) o zizzania, che ha effetti tossici, non doveva inquinare le farine e fin dal XVI secolo le autorità cittadine intervengono con bandi per proibirne il mescolamento con le farine per fare il pane o comunque destinate all’alimentazione umana. Dopo il 1861, con la demaniazione dei beni ecclesiastici si registra una caduta della produzione di cereali minori, come farro, spelta e grano grosso. Nel 1881 Girolamo Giardini redige una relazione sullo stato dell’agricoltura del territorio eugubino e riferisce che del totale del terreno coltivato (= 12.800 ettari) la metà è messa a grano, l’altra metà o i 3/5 a granoturco, il restante a fave, foraggio e legumi diversi. I terreni a grano erano 2600 ettari in pianura, 2400 in collina e 1500 in montagna. I terreni a granoturco 1900 ettari in pianura, 1000 in collina e 600 in montagna. Si sperimentano anche nuove colture e si rivela, ad esempio: che si coltiva il grano di Rieti. La biodiversità in questo periodo è carente» (G. M. Nardelli, Biodiversità Risorse Cultura. Itinerario di recupero degli agrosistemi nel territorio storico di Gubbio tra XVI e XIX secolo, Università degli Studi di Perugia, Perugia 1999). Un monumento a cultivar rare reperite da “battiture” domestiche intelligentemente e prudentemente fuse ad altre figlie della necessaria, obbligatoria globalizzazione della derrata alimentare. Da Gino, gli spaghetti li faceva la Vera a mano e li portava la mattina presto insieme ai polli di casa “dai tendini di Achille” e alla cicoria di campo, amara.  Senza nulla togliere ai Sanniti, non di certo si tratta di una singolarità questa dei  “numero 12” alla chitarra, data l’essenza di una Regione così bene caratterizzata dalla pasta, in cui anche ad agosto trionfa la tagliatella al sugo di cinghiale, in autunno il quadruccio in brodo di gallina e il tagliolino in quello di manzo, a Natale il regale “cappelletto” riempito con carne di “bollito”, mortadella e Parmigiano su ricette familiari tutte ottocentesche e filo-toscane, cotto in brodo di cappone. Per non dimenticare le tipicissime ciriole e gli strangozzi, rigorosamente senza tuorlo, che sono assai poco perugini e molto di più ternani. Ma per tornare al nostro convivio, quello spaghetto apparentemente semplice che sgusciava in bocca mantecato, rugoso, al dente, capace di dileguare quella disgustosa sensazione di viscido propria delle anemiche pastasciutte turistiche in cui disgraziatamente si incappa sul lungo Tamigi o in alcune calle della Serenissima, senza saperlo, era geneticamente espressione di Storia: «Si comanda e proibisce per il predetto pubblico bando a tutti quelli che vendono i taglierini, vermicelle e maccaroni di pasta cruda, che per l’avvenire non possono venderli più di dieci quattrini ducali per ogni libra di doddici oncie e se non sono ben secchi e staggionati senza humidità alcuna, sotto pena di due scudi per ciascuna volta ed altre pene contenute nei bandi generali d’applicarsi conforme al solito. In fede, dato nel Palazzo di nostra sollita residenza questo dì, 17 luglio 1668»  (dal Bando del Gonfaloniere di giustizia e Consoli della città di Gubbio, in:G. M. Nardelli, Alla tavola del monaco. Il quotidiano e l’eccezionale nella cucina del monastero tra XVII e XVIII secolo, Quattroemme, Perugia 1998). Quella pasta era portatrice nel suo germe di forma e granaglia di una identità culturale. Nel frattempo a camicia schizzata irreparabilmente di rosso, sazi di quel vino sincero, se avevi temperanza, magari aiutando a sparecchiare e radunando anche qualche forestiero spiazzato da tutta quella intimità e reale familiarità, cenavi con lui, Gino, cuoco, cameriere, caposala, locandiere, oste… amico. Selettivo, a tal punto da chiudere il locale e mandare via la gente in troppo ritardo, per “farsi il piatto di pasta con gli amici” e per prendere in giro l’assurdità dei social network della ristorazione che commentano anche ristoranti inesistenti. Era lì, a mezzanotte circa, a lumi spenti e tavoli sbriciolati, che realmente cominciava la serata. Poi arrivava il luglio, Umbria Jazz terminava e si portava via etniche straniere e l’inebriante mellico,dolciastro odore di Tiglio; l’aroma indice di stagionalità, che meglio tra tutti tipizzava le mura etrusche del capoluogo umbro, svaniva. Ed  ecco che in un batter di ciglio ti ritrovi in riviera dove il turismo elegante ormai globalizzato ricco in russi oltre che degli abituali nordeuropei è spettatore di storia malatestiana e di ville liberty o neoromaniche. Lì, solo a pochi giorni di distanza, quasi come in una canzone di Sergio Endrigo, in qualche ristorante, ti rendi conto della differenza e ti sorprendi: straordinari condimenti e sughi dal “sentore di chilometro zero” dediti ad una pasta tristemente mai al dente… sempre troppo cotta. Peggio ancora: piatti di spaghetti fatti a regola d’arte rispediti in cucina, perfino preferiti scotti e con il ketchup secondo l’uso di alcune grottesche trasmissioni d’oltreoceano da pay tv. Un problema culturale dunque, ma anche quello di non avere sempre la forza di proporre un modello e fare “digerire” una  corretta cultura della pasta alimentare, di non formare, di non indirizzare alla autoctona cultura culinaria. Un dilemma consapevole difficile da sciogliere per chi in modo economicamente vantaggioso preferisce o è costretto a soddisfare il gusto ancor grezzo di molti turisti, anche facoltosi. Allinearsi anziché rendere merito ad una delle migliori espressioni sincretiche della italica Storia. Non si è caduti allora in un problema effettivamente culturale? A voi la scelta… Io la mangio al dente.

Giuseppe Marino Nardelli – Agenzia Stampa Italia   

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