(ASI) E' necessario interrogarsi continuamente sul problema del confine orientale italiano e dell'esodo giuliano – dalmata. E' giusto ricordare che il filo della memoria spezzata non è stato riallacciato da molto, e che per anni, su tal argomento, è calato un silenzio assordante, quasi fosse una damnatio memoriae da rimuovere collettivamente. Eppure, il confine orientale d'Italia, è stato oggetto di attenzioni sin dalla nascita del romanticismo e dell'idea di nazione, e, come ricordava Bruno Coceani, si trattava della “massima posta per tutte le generazioni italiane dal Risorgimento al 1954”. Improvvisamente, proprio da quell'anno, il problema è confinato al mero mondo dell'esulato, senza godere più di alcuna risonanza nazionale. La nuova linea confinaria venne decisa nel periodo che intercorre tra il trattato di pace di Parigi del 1947 e il 1954, anno di effettivo ritorno di Trieste all'Italia. Come si sia giunti a ciò, e sopratutto al silenzio assordante degli anni a venire, è ancora oggetto di forti interrogativi.
Il confine orientale italiano, per la precisione: Istria, Fiume e alcune isole della Dalmazia inclusa la città di Zara, erano rivendicate sin dai tempi della rivoluzione romantica del 1848. La politica austro – ungarica, detentrice di quelle terre, si basava invece sul divide et impera, favorendo l'elemento croato a discapito di quello italiano o di sentimenti italiani. Ciò comportava un allontanamento coatto di tutti i patrioti italiani nelle lande più disparate dell'Impero, dalle Bocche di Cattaro a Sigmnundsberg. Persino grandissimi amministratori della cosa pubblica come Antonio Bajamonti, il mirabilissimo podestà di Spalato, ha dovuto cedere il passo a brogli elettorali e alle continue scorrettezze dell'amministrazione austro ungarica e dei croati.
La grande occasione storica per tutti gli italiani che agognavano il ricongiungimento alla madre patria della loro terra, e sopratutto, dell'Italia di vedere completato il sogno del compimento dei confini risorgimentali, si presentava il 24 maggio 1915, momento della dichiarazione di guerra all'Impero di Francesco Giuseppe. L'intervento italiano, al Fianco della Francia e della Gran Bretagna, si situava nell'alleanza chiamata Triplice Intesa, e mirava ad ottenere, tramite il Patto di Londra, i territori che rivendicava da tempo: Istria, la costa dalmata, il Trentino e l'Alto Adige sino alla Vetta d'Italia, Trieste, non la città di Fiume (che si autodeterminerà per volontà popolare, secondo i principi wilsoniani italiana il 30 ottobre 1918). Dopo due anni di logorantissima guerra di trincea, l'Italia ripiegava su stessa a Caporetto, ritrovando le proprie forze, cambiando Capo di Stato Maggiore e distruggendo le fila austriache sul Grappa, sul Piave e sul Montello, segnando pagine di eroismo ancora oggi indelebili nella memoria collettiva.
Il dopoguerra vide la creazione, a tavolino, del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, rivendicante ciò che l'Italia stessa voleva, uscita appena vittoriosa dalla grande prova collettiva, costata 680,000 morti ed un milione di mutilati. Le trattative di pace, che si ispiravano ai principi di autodeterminazione de popoli proclamati dal presidente americano Wilson, non volevano cedere all'Italia la città di Fiume, sul Golfo del Carnaro, pienamente a maggioranza nostrana, bensì solo quanto specificato nel Patto di Londra. Le proteste, sfociarono dapprima in una formula che veniva coniata dal Poeta – Soldato Gabriele d'Annunzio, chiamata Vittoria mutilata, e poi in un'azione ancora oggi oggetto di studio, passata alla storia come Impresa di Fiume.
Il governo italiano, in ottemperanza degli accordi internazionali, decise di sgomberare Fiume dai legionari di Gabriele d'Annunzio dopo un anno di reggenza. L'impasse, svoltosi durante i giorni di Natale del 1920, vide uno scontro aperto tra i filo governativi italiani e gli uomini del Comandante. Per Fiume, si dovrà aspettare sino al 1924, anno in cui il governo italiano, capeggiato da Benito Mussolini, stipulò un trattato bilaterale con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, in cui si destinava la città di Fiume all'Italia. Nel frattempo, l'Italia poneva a pieno titolo la sua sovranità su Istria e alcune isole dalmate, con capoluogo Zara. Il Tricolore finalmente sventolava su Trento e Trieste.
In Italia andò al potere, precisamente il 28 ottobre del 1922, il Governo Fascista, capeggiato da Benito Mussolini, fondatore di un movimento nato nel 1919. Fondato su un forte sentimento nazionale, propose una duplice politica per la Venezia Giulia: da un lato, mancata tutela delle minoranze slovena e croata, e dall'altro, potenziamento di tutta la rete idrica, stradale, ferroviaria, mineraria e lavorativa.
Il fascismo, resosi dittatura dal tre gennaio del 1925, creò una certa stabilità nel Paese, sino all'alleanza con la Germania di Adolf Hitler. La situazione internazionale precipitò dal 1939, anno dello scoppio della seconda guerra mondiale. Nel frattempo, nella Venezia Giulia si erano costituiti gruppi clandestini di resistenza al Fascismo, come il Tigr e l'Orjuna, che tramite atti di sabotaggio o attentanti alle istituzioni del Regime, intendevano destabilizzare la regione.
L'Italia Fascista entrò in guerra il 10 giugno 1940, al fianco della Germania nazional – socialista contro gli alleati, Francia ed impero inglese. Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, dapprima favorevole all'alleanza con i Paesi dell'Asse e firmatario del patto Tripartito, dopo un rovesciamento governativo, si schierò contro Italia e Germania. Queste ultime, per non avere una spina nel fianco ai loro confini, decisero di invadere la Jugoslavia, smembrandola in varie parti: il Regno di Croazia, gestito da Ante Pavelic, capo degli ustascia, il Regno di Montenegro, e la Provincia di Lubiana fu annessa all'Italia.
I nostri soldati non applicarono una politica benigna nella guerra nei Balcani, sempre costretti ad operazioni anti – guerriglia, ed invisi alla popolazione locale. Il tutto sino all'otto settembre del 1943, anno del crollo militare e politico del nostro paese. Le nostre truppe, sprovviste di ordini, lasciarono interi depositi scoperti, munizioni, armi e postazioni. Salì alla ribalta Tito, capo dei partigiani jugoslavi dell'armata di liberazione. Il suo vero nome era Josip Broz, e sarebbe stato un fenomeno nullo, se le responsabilità italiane non fossero così gravi ed evidenti. Tito organizzò la resistenza contro gli italiani e i tedeschi. Questi ultimi nel frattempo avevano invaso tutta la Jugoslavia e la Venezia Giulia, instaurando una vera e propria amministrazione germanica. Il lembo occupato si chiamava Adriatisches Küstenland, ossia Litorale Adriatico, con dei fortissimi richiami all'antica dominazione austriaca. Gli italiani, si trovarono a salvaguardare l'italianità secolare delle loro terre contro tedeschi e partigiani titini, in difficilissime condizioni.
La guerra volse a favore degli alleati, e conseguentemente dei partigiani di Tito, che con una lentissima marcia, riuscirono ad occupare tutta la Venezia Giulia, giungendo per primi rispetto agli alleati a Trieste il primo maggio del 1945. I titini, sia durante la prima occupazione del 1943, poi, dopo la seconda del 1945, attuarono una politica di ritorsione contro gli italiani, considerati nemico di classe e secolare: deportazione, eliminazione fisica dei rappresentati delle amministrazioni dello Stato, e soppressione nelle foibe, cavità carsiche tipiche della conformazione geologica del terreno dell'Istria e di alcune zone della Dalmazia. Anche l'occupazione di Trieste fu traumatica, dove persino il fuso orario della città venne cambiato, per allinearlo a quello della nuova repubblica federativa jugoslava.
La situazione, insostenibile, venne affrontata durante il trattato di pace di Parigi del 1947, meglio conosciuto come diktat. L'Italia, paese sconfitto, e soprattutto mal rappresentato alla conferenza di pace, non fece nulla per salvaguardare i territori acquisiti durante l'enorme sforzo della prima guerra mondiale. Perse di conseguenza tutta l'Istria, il territorio dalmatico di Zara, Fiume ed il Carnaro, rischiando di lasciare alla Jugoslavia pure Trieste, vanificando così il ventennio precedente. De Gasperi, neo capo del Governo Italiano, non riuscì nemmeno ad influenzare le potenze alleate per un possibile referendum, cosa fattibile nel 1946, rivolto agli abitanti della Venezia Giulia per scegliere a che nazione afferire, se Italia o Jugoslavia. Una colpa gravissima, ancor oggi inspiegabile. La conferenza di Pace sancì la nascita del Territorio Libero di Trieste, diviso in due zone: la Zona A di 222,5 km² e circa 310.000 abitanti (di cui, secondo stime alleate, 63.000 sloveni) partiva da San Giovanni di Duino, comprendeva la città di Trieste e terminava presso Muggia: era amministrata da un Governo Militare Alleato; la Zona B con la parte nord – occidentale dell'Istria di 515,5 km² e circa 65.000 abitanti (35.000 italiani, 22.000 sloveni e 9.000 croati secondo le stime della Commissione Quadripartita delle Nazioni Unite) che era amministrata dall'esercito jugoslavo (S.T.T. - V.U.J.A). La Zona B fu, a sua volta, divisa in due parti: il distretto italo – sloveno di e quello italo – croato di Buie, separati dal torrente Dragogna. Capodistria divenne la sede dell'amministrazione militare e civile jugoslava della zona.
Il Memorandum di Londra, stabilì, nel 1954, che la zona A passava all'amministrazione italiana, mentre quella B al quella Jugoslava. Nel 1975, un nuovo e definitivo trattato, passato tra il più assordante dei silenzi, firmato ad Osimo, sancì il definitivo assetto confinario e la cessione totale della zona B alla Jugoslavia.
Come si può comprendere, la storia del confine orientale italiano è travagliata e sofferta. Sopratutto, dopo la sconfitta del secondo conflitto mondiale, l'occupazione e la cessione di Istria, Fiume e Dalmazia, partirono da quelle terre circa 350.000 persone. Da notare, non solo italiani, ma anche sloveni e croati in fuga da un regime comunista di fame e morte. In pochi sono rimasti, per poi allontanarsi in un secondo momento, oppure per annullare la propria identità. Ed è su questo che dobbiamo ancora oggi riflettere: i giuliano – dalmati subirono una trasmigrazione unica nella storia, e di riflesso, la perdita della loro terra ed identità. Si sono dovuti insediare in una nazione che li accettava mal volentieri, spesso tra indifferenza e poco rispetto. Dovettero tacere, quasi la colpa della sconfitta militare fosse solo loro, e questo per lungo tempo, sino a quando, i fili della memoria spezzata non si sono in parte ricongiunti, nel 2004, grazie ad una legge del governo Berlusconi. V'è ancora molto da fare e da sapere. E' un debito che non possiamo non saldare.
Valentino Quintana per Agenzia Stampa Italia